Carlo Nordio
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Conte e la Gregoretti/ Responsabilità nascoste in quel brutto voto al Senato

di Carlo Nordio
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Mercoledì 22 Gennaio 2020, 09:28
Confermando il principio evangelico necesse est enim ut veniant scandala, era necessario che si verificasse il grottesco paradosso in Giunta al Senato affinché tutti, anche i commentatori più prudenti, ammettessero che la vicenda della nave Gregoretti era nata male e rischia di finire peggio. Perché anche qui, come nel caso della Diciotti, una complessa vicenda tecnica da affrontare con argomenti giuridici è stata degradata al rango di una polemica faziosa, generata dalla convenienza e alimentata dalla confusione. Andiamo dunque per ordine.

Primo. La Giunta non era chiamata a pronunciarsi sull'esistenza o meno del reato attribuito a un ministro. Doveva decidere se questo reato, ammesso che esistesse, fosse stato commesso o meno «per il perseguimento di un preminente interesse pubblico». Questo, e solo questo dice la Legge Costituzionale del 1989. E' una legge che non tutela la persona, ma la stessa carica ministeriale. Di conseguenza l'indagato non può neanche rinunziare a questa sorta di immunità, che mira a sottrarre dall'intervento giurisdizionale quegli atti anche gravi, compiuti a salvaguardia di interessi collettivi.

E qui sono sorti gli equivoci. Il primo l'ha determinato lo stesso Salvini quando, nel caso Diciotti, aveva istintivamente proclamato di «rinunciare all'immunità».

Cosa che, ripetiamo, non dipende da lui. Poi ne abbiamo sentite di tutti i colori. Per esempio che un ministro non deve difendersi dal processo ma nel processo; che nessuno è al di sopra della legge; e che, in questo caso, non ci sarebbe fumus persecutionis. Tutte proposizioni errate, perché è proprio la legge - anzi una Legge Costituzionale, che nella gerarchia delle fonti prevale anche su quelle ordinarie - a imporre al Parlamento di impedire il processo se il reato è stato commesso nell'interesse pubblico. Quanto al fumus non c'entra niente, perche esso riguarda l'inviolabilità parlamentare, e non i reati ministeriali. Ma sono parole al vento, e da domani riascolteremo queste petulanti litanie.

Secondo. Se questo, e solo questo, era il compito della Giunta, e prossimamente lo potrebbe essere dell'Aula, le ipotesi sono due: o Salvini ha agito nell'interesse collettivo, e allora l'autorizzazione andava (e andrà) negata. Oppure ha agito nell'interesse proprio, e allora si pone un quesito ulteriore: Conte sapeva cosa stava facendo Salvini? La difesa del premier è che manca una decisione collegiale. Con tutto il rispetto per l'Alta carica, il problema non è questo: è se lui sapesse oppure no. Perché se ne era a conoscenza nei suoi confronti scatterebbe l'articolo 40 del codice penale: non impedire un evento che si ha il dovere di impedire equivale a cagionarlo. Esisteva questo potere- dovere? Sì, essendo lui il garante dell'indirizzo politico del governo. Quindi Conte potrebbe dover rispondere a titolo di concorso per omissione. Se poi per questa fattispecie sia necessaria una nuova delibera del Tribunale dei Ministri è questione ancora più complicata, dove l'esausto lettore rischia di perdersi, e che gli risparmiamo.

Terzo. La Procura di Catania aveva già chiesto l'archiviazione. Se quindi il processo si celebrasse avremmo un accusatore che non sosterrebbe l'accusa. Non è una novità nel nostro sgangherato ordinamento, ma lo sarebbe per un reato ministeriale. Perché con ogni probabilità il Pm citerebbe Conte (che comunque sarebbe citato dalla difesa). Ma in quale ruolo? Se lo citasse come teste, Conte dovrebbe rispondere all'ovvia domanda se sapeva oppure no quanto stava facendo Salvini. Se lo negasse, probabilmente si scatenerebbero un mare di obiezioni. Se lo ammettesse, si dovrebbe sospendere tutto e indagare anche lui.

Purtroppo questa incredibile confusione non si esaurisce qui. Salvini ha complicato le cose, perché ha chiesto che l'autorizzazione fosse concessa. Ma questa decisione, come si è detto e ripetuto, non dipende dall'interessato, ma dal giudizio sulla natura dell'interesse perseguito dal ministro. Così Salvini dovrebbe smentire se stesso, ammettendo di avere agito nell'interesse proprio e contro il parere del governo, in una sorta di autoflagellazione giustizialista. Ma se così fosse, la posizione di Conte sarebbe ancora più seria, perché davanti a un'ammissione tanto grave il presidente del Consiglio a maggior ragione sarebbe dovuto intervenire per impedire il reato.

Quanto agli altri protagonisti, i grillini brillano per una sorta di spregiudicata indifferenza. Sostengono infatti che il caso Diciotti (dove non avevano concesso l'autorizzazione) e quello attuale sono diversi, mentre sono sostanzialmente identici. L'unica vera differenza è che mentre allora la Procura aveva chiesto l'archiviazione perché il ministro aveva agito nell'ambito dei suoi poteri discrezionali, adesso l'ha chiesta perché il reato non sussiste nella sua materialità.

Quanto al Pd, esso ha cercato di rinviare il voto in Giunta per evitare il martirio preelettorale che avrebbe favorito il suo temibile avversario. Ma quando mai un rinvio a giudizio giova all'imputato? Risposta facile: quando l'accusa è assurda e persecutoria, o almeno è vista come tale dalla maggioranza dell'opinione pubblica. Così, ritirandosi nel suo poco nobile Aventino, il Pd ha sostanzialmente confermato la tesi del suo rivale.

Concludo. Come si vede, indipendentemente dalla sorte giudiziaria di questo o quel ministro, qui il Diritto è stato umiliato e offeso un po' da tutti. Ancora una volta le nostre istituzioni escono sconfitte e screditate e, quel che è peggio, il Paese rischia di affrontare un'altra eterna agonia di polemiche sui rapporti tra giustizia e politica. L'unica speranza è che il Senato, melius re perpensa e nel vero interesse collettivo, capovolga le decisioni della Giunta e ponga fine a questa vicenda sconsiderata.
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