Carlo Nordio
Carlo Nordio

Intolleranti a Torino/ La democrazia forte non teme il pensiero ma la stupidità

di Carlo Nordio
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Mercoledì 8 Maggio 2019, 01:08
Fa parte dei paradossi della Storia dover citare un nostro amatissimo scrittore ebreo per difendere un editore che si definisce fascista. Ma il noto ammonimento di Heinrich Heine, secondo cui dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini, esprime proprio questa apparente contraddizione, che oggi riemerge in quella sorta di “salon des refusés” dell’esposizione libraria torinese.
È vero che la tragedia si ripresenta, ancora una volta, sotto una forma di farsa, perché le vittime non sono più Heine o Freud, e i libri non si vogliono più gettare al rogo ma solo estromettere. Ma è una farsa molto amara, perché dimostra la fragilità della nostra cultura liberale, e quindi della stessa democrazia, che fa della tolleranza la sua prima ragion d’essere.
Noi possiamo anche capire che le vittime, o i figli delle vittime, della persecuzione nazifascista sentano ribollire il sangue davanti a ogni forma di negazionismo, giustificazionismo, revisionismo o comunque si voglia chiamare una qualsiasi difesa di quei funesti regimi. Ma, al netto delle emozioni istintive, vorremo far riflettere che scriminare - o sopprimere - le voci del dissenso, per quanto stupide o odiose, significa proprio tradire gli ideali per i quali quei regimi sono stai combattuti e vinti.
Perché la libertà di manifestazione del pensiero non tollera condizionamenti o confini, e anzi trae proprio dal confronto con i suoi nemici la sua legittimazione e la sua superiorità morale. Se questa libertà fosse concessa soltanto a chi ne condivide i fondamenti perderebbe la sua stessa ragion d’essere, e si avviterebbe su se stessa in una sorta di assolutismo autoreferenziale. 
Non occorre scomodare Hegel per capire che un valore si afferma solo attraverso la sua opposizione a un valore contrario, che non avremmo la cognizione del bello, del vero e del giusto se non sapessimo cos’è il brutto, il falso e l’iniquo. Ed è singolare che questi concetti minimi siano posti in discussione proprio in occasione di un evento culturale come quello del Salone internazionale del libro di Torino.
Purtroppo questa cultura si rivela ora, come dicevamo, in tutta la sua ambigua fragilità. Perché queste iniziative discriminatorie non emergono solo nei Paesi dittatoriali, ai quali sono, per così dire, consustanziali, ma anche in quelli dove la libertà non è entrata pienamente nel codice genetico di una nazione. 
Quando Churchill, in pieno tempo di guerra, limitò alcune di queste libertà, fu oggetto di critiche così aspre che dovette - lui, liberale a tutto tondo - spiegare che talvolta la sopravvivenza nazionale, e solo quella, impone la sospensione di alcune prerogative; e dovette promettere solennemente che alla fine del conflitto tutte sarebbero state pienamente restaurate, cosa che ovviamente avvenne senza indugio. Perché una democrazia forte non ha paura del pensiero, ma semmai della stupidità. 
Ed è singolare che, a distanza di pochi giorni dal monito del Presidente Mattarella che quando si limitano le libertà invocando la sicurezza ci si mette su una brutta strada, si voglia ora battere questa via odiosa in nome di un antifascismo che invece, per definizione, dovrebbe esser tollerante.
Vi è infine una dimensione ancora più paradossale in questa vicenda. Che qualcuno ha invocato la violazione della legge penale. Ora, a parte il fatto che l’apologia di fascismo non può esser ricondotta - come si insegna - a una mera “difesa elogiativa”, ma richiede connotati ben più pregnanti, la contraddizione si rivela in tutta la sua originalità proprio dal punto di vista, diremmo, editoriale. 
Il nostro codice penale è infatti stato redatto da tre giuristi fascistissimi, Arturo e Alfredo Rocco e Vincenzo Manzini; nella relazione di accompagnamento si afferma che esso esprime «nel modo più netto la purezza e la filosofia del regime fascista». 
E, ciliegina sulla torta, è firmato da Benito Mussolini. Questo codice è ancora in vigore, campeggia negli scaffali delle librerie, sui tavoli degli avvocati, dei giudici e dei procuratori. Chiuderemo dunque i negozi, gli studi e magari i palazzi di Giustizia? Oppure vieteremo solo la vendita del codice? Saranno domande assurde, ma sono domande che sorgono quando, appunto, la tragedia dei roghi di Heine diventa la farsa dei dissidenti di Torino.
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