Alessandro Campi
Alessandro Campi

La ricetta che manca/ Prove tecniche di opposizione, ma l’alternativa ancora non c’è

di Alessandro Campi
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Mercoledì 23 Gennaio 2019, 00:11
Uno dei punti di forza dell’esecutivo è certamente la capacità di Matteo Salvini e Luigi Di Maio a recitare tutte le parti in commedia. Governano insieme il Paese (o almeno ci provano) ma si fanno reciprocamente l’opposizione. Sono alleati, ma non smettono di considerarsi come alternativi.

Il M5S un giorno sostiene la posizione della Lega in materia d’immigrazione, il giorno dopo ne critica l’atteggiamento eccessivamente duro. La Lega prima concede il via libera al reddito di cittadinanza, poi frappone al provvedimento mille ostacoli. Un copione che si ripete su tutte le materie, a partire dalle grandi opere: i leghisti le annunciano come necessarie per lo sviluppo, i grillini le frenano perché dispendiose e dannose per l’ambiente. 

Quanto all’opposizione reale (dal Pd a Forza Italia) da mesi sta giocando un ruolo solo nominale. C’è ma non si vede. Propone, ma non si capisce bene cosa. Denuncia e critica, ma non incide di un ette sul consenso di cui il governo gode. Prova a compattarsi, ma risulta sempre più divisa e impotente. Al punto che la sua unica speranza è che Salvini e Di Maio, a furia di litigare per finta, finiscano per farlo sul serio.
Ma la scadenza del voto europeo-amministrativo s’avvicina ed ecco che qualcosa pare finalmente muoversi tra chi è minoranza in Parlamento.

Il Manifesto di Calenda, il ritorno del Cavaliere, i sussurri relativi ad un nuovo partito dei cattolici. Fermenti reali o proponimenti velleitari e tardivi? Produrranno effetti politici o sono destinati a non incidere sugli attuali rapporti di forza e sugli imminenti appuntamenti elettorali?

Nel centrosinistra Calenda propone per le europee un listone nel quale far confluire tutti gli avversari del populismo. Il cuore non può che esserne il Pd, il cui futuro segretario (Zingaretti?) rischia però di vedersi depotenziato nel suo ruolo prima ancora di entrare in carica: gli si chiede di aderire ad un progetto la cui paternità è di un semplice iscritto a quel partito e, come primo atto, di rinunciare al proprio simbolo. Un simile rassemblement, se mai nascerà, sembra l’annuncio della fine del Pd. Il che spiega la freddezza di molti suoi esponenti nei confronti di Calenda. 

Quanto al successo di una simile lista, l’autorappresentazione che se ne sta offrendo non lascia ben sperare: l’idea di dare voce all’Italia migliore, quella «che fatica, studia, lavora, acquisisce competenza, produce», sottintende che la base elettorale del fronte sovranista-populista sia composta da scansafatiche e analfabeti funzionali. È la caricatura antropologica che la sinistra italiana ha riservato per due decenni al mondo berlusconiano rimediando per ciò stesso sonore sconfitte e delusioni. Quella lezione evidentemente non ha insegnato nulla.

Senza contare che alle europee si vota col sistema proporzionale, il che consiglierebbe ad ogni partito di presentarsi in proprio per contare la sua forza reale. Un listone eterogeneo produrrebbe inoltre un problema di collocazione nello scenario europeo. Potendo sulla carta comprendere di tutto (dalla sinistra radicale a quegli esponenti del mondo berlusconiano che hanno espresso pubblico apprezzamento per la proposta) a quale famiglia o gruppo europeo esso aderirebbe? Probabilmente ci si dividerebbe in diversi tronconi all’indomani del voto, rivelando così la natura effimera e strumentale dell’intero progetto. L’altra novità, passando al centrodestra, è tutt’altro che tale. Berlusconi ha deciso di ricandidarsi come capofila di Forza Italia, con il rischio di bruciare l’ennesimo delfino, quell’Antonio Tajani che per ruolo istituzionale e storia politica sarebbe invece la carta migliore da giocare nella contesa europea. Da un lato è una scelta romantica: tornare in trincea nel venticinquesimo della prima e vincente discesa in campo. Dall’altro è una mossa quasi disperata: scommettendo sul proprio nome si punta a superare la soglia simbolica del 10%, al di sotto della quale tra parlamentari, amministratori e quadri berlusconiani si produrrebbe una fuga in massa verso la Lega. Come un signore di 82 anni, per quanto con l’animo del combattente, possa reggere una dura campagna elettorale con due quarantenni iper-vitalisti è un mistero che solo miracolosamente potrà risolversi in una sorpresa di quelle cui il Cavaliere ci ha abituato nel passato. 

L’epoca dei miracoli e delle rimonte impossibili sembra finita. Ma il punto non è la sua tenuta fisica, quanto lo scenario nuovo che si è creato. Un tempo Berlusconi poteva proporsi agli elettori italiani come l’interlocutore privilegiato dei popolari europei. Oggi, con quest’ultimo che scivola a destra per ragioni tattiche (assicurarsi la maggioranza nel futuro parlamento di Strasburgo a costo di strizzare l’occhio ai populisti) e la Lega che viaggia al 35% nei sondaggi, quel suo ruolo di garante/mediatore si è molto indebolito. 

Sul partito “neo-cattolico” c’è poco da dire. Già l’idea che a ispirarlo (o desiderarlo) possano essere ambienti in senso lato ecclesiastici è sufficiente a far rivoltare nella tomba il povero Sturzo, che nel 1919 fondò i popolari come una forza sì d’ispirazione cristiana ma entro una visiona laica e aconfessionale della politica. Negli auspici di alcuni dovrebbe essere una sorta di anti-Lega ispirato dai pronunciamenti di Papa Francesco sull’accoglienza. Se si desidera che Salvini arrivi al 50% dei consensi un partito pro-immigrati sembra in effetti una buona idea. Ma anche in questo caso la questione è un’altra. Il fatto che esistano ancora milioni di italiani che si professano cattolici non vuole dire che il loro voto sia orientato dall’identità religiosa. La realtà che oggi sconsiglia il progetto di un partito cattolico non è l’avanzare della secolarizzazione, cioè la rinuncia alla fede come fenomeno di massa, quanto la crescente privatizzazione dei valori religiosi: da cattolici si può ormai votare per chiunque proprio perché non si vota più in quanto cattolici.

Ma possibile, ci si chiederà, che niente vada bene in quel che fa l’opposizione? Il problema è che il risultato elettorale del marzo 2018 non è stato uno scherzo del destino, come alcuni si ostinano a pensare ripetendo un cliché tipico dell’antiberlusconismo. Gli oppositori del Cavaliere hanno passato anni a ripetere che la sua vittoria era come l’arrivo di un marziano, ovvero il frutto di un incidente di percorso, mentre si trattava del frutto di un cambio nella mentalità collettiva e negli orientamenti di voto di milioni di italiani. Oggi il cambiamento appare persino più radicale, dal momento che si inquadra nel più generale ribollire sociale delle democrazie contemporanee. 

Il che significa, in soldoni, che da qui alle europee sarà difficile inventarsi una proposta politica che venga percepita dagli elettori come realmente innovativa e credibilmente alternativa al duopolio giallo-verde dato per vincente. La battaglia contro quest’ultimo sarà sul medio-lungo periodo e avrà bisogno, per essere vinta, di idee nuove, energie più fresche, e una ricetta che oltre ad accogliere la denuncia dei problemi da parte dei cittadini desse anche risposte concrete nel merito. Questa farebbe davvero la differenza. Insomma, una strategia diversa dalla denuncia dei leghisti e grillini alla stregua di barbari devastatori sostenuti da un elettorato composto da razzisti e incompetenti. Un listone di sinistra per le europee e l’ultima battaglia del Cavaliere forse serviranno a contenere i danni, ma è illusorio sperare in rimonte all’ultimo miglio (o, peggio, in ribaltoni parlamentari).
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