Alessandro Campi
Alessandro Campi

Ritorno alle origini/ La leadership fragile è la miccia della legislatura

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Venerdì 3 Gennaio 2020, 00:10
Nell’epoca in cui, anche nella sfera politica, l’immagine è tutto e i ragionamenti sono niente non poteva passare inosservato il breve video con il quale Luigi Di Maio ha fatto gli auguri agli italiani, rivendicando come una grande vittoria l’entrata in vigore delle nuove norme sulla prescrizione processuale e rilanciando l’idea di revocare alla famiglia Benetton le concessioni autostradali. Barba incolta, maglioncino, tecnica della ripresa - tutto evocava il Salvini di lotta e d’opposizione. Un travestimento barricadiero che è parso stridente col suo incarico ministeriale e col ruolo che Di Maio si era ritagliato del grillino sì intransigente ma moderatamente benpensante e comunque sempre in giacca e cravatta: insomma, il rivoluzionario della porta accanto, gradito a mamme e nonne con la sua faccia da bravo ragazzo. Ad alcuni quest’esordio mediatico d’inizio anno è parso l’annuncio di una conversione o metamorfosi, appunto sul piano dello stile e dell’immagine, resa necessaria dalle convulsioni politiche e dalle lacerazioni personali che stanno attraversando il M5S.

Divisioni delle quali Di Maio – se non riuscirà a governarle in qualche modo – potrebbe essere lavittima più illustre, forse la vittima predestinata per come certi fattori, strutturali e congiunturali, si stanno malignamente combinando tra loro a suo svantaggioTra i primi va richiamato quello che appare, oggi più che mai, il limite più grande della leadership sin qui esercitata da Di Maio: l’essere il frutto di una delega che non gli viene direttamente dagli elettori o dagli organi (che in realtà non esistono) del suo partito, ma dal Fondatore.
Di Maio, capo politico investito dall’alto, ha la penultima parola, Grillo l’ultima: quella decisiva. La natura esatta del loro rapporto s’è colta plasticamente anche in questo caso grazie ad un video: quello con il quale il comico-guru genovese, qualche settimana fa, ha dovuto ricordare a dirigenti e militanti che il referente-capo del M5S è appunto l’attuale ministro degli Esteri. Ma nel rilegittimarlo lo ha in realtà ulteriormente depotenziato, mostrandolo per quel che è: un comandante potenzialmente soggetto a scadenza e revoca, reso ancora più fragile – ricordiamo anche questo – dal fatto d’aver perso, nell’ultimo anno e mezzo, tutto il perdibile sul piano elettorale.

Si spiega così la sua difficoltà a governare i malumori crescenti nel partito e soprattutto nei gruppi parlamentari. Malumori che rimandano ad un altro nodo strutturale del M5S: il carattere occasionalistico e approssimativo con cui, nella fase dei successi crescenti, è stata gestita la selezione del personale politico, al centro come in periferia. La questione non è il pressapochismo o la scarsa preparazione di quest’ultimo sul piano tecnico-professionale, come spesso si sostiene; ma la sua potenziale inaffidabilità sul piano politico-istituzionale. Quando si pesca a casaccio nel corpo sociale, facendo valere come unico titolo per l’accesso alle cariche l’inesperienza del cittadino qualunque purché penalmente immacolato, il risultato è quello che stiamo vedendo: l’interesse o umore personale del singolo parlamentare o rappresentante nelle istituzioni, travestito da libertà di pensiero e fedeltà alla causa, finisce in realtà per trasformarsi in anarchia o indisciplina e nella tentazione-minaccia di passare da un partito all’altro. 

Male, quest’ultimo, endemico della politica italiana degli ultimi anni, dove la transumanza è divenuta la regola, ma dal quale i grillini – fautori sulla carta della democrazia orizzontale e della partecipazione di tutti a qualunque decisione, praticanti nei fatti un rigido verticalismo – si ritenevano ingenuamente immuni (come si ritenevano immuni, per essersi eletti a campioni della pubblica moralità, dalla possibilità di litigare tra di loro per vili questioni di denaro e poltrone). 

All’interno del M5S in realtà ci si è posti il problema di darsi una diversa e più funzionale organizzazione interna, in attesa di risolvere l’altra anomalia strutturale d’una società privata che detiene le chiavi legali dell’intera baracca e ne condiziona, senza averne titolo politico, le scelte fondamentali. Si è anche avviato un percorso in questo senso che però non appare per nulla chiaro. Quella dei “facilitatori”, scelti per radicare il movimento a livello territoriale, appare più una bizzarria linguistica che un modello gestionale innovativo, e dà l’impressione di un meccanismo farraginoso. Al tempo stesso, colui che al riassetto del movimento-partito dovrebbe sovrintendere, in quanto suo capo politico (sebbene pro tempore), appare preso da troppe incombenze. Guidare la politica estera di un grande Paese quale pur sempre resta l’Italia e rimodellare quello che in Parlamento è ancora il primo partito nazionale: le due cose insieme non si possono fare, a meno di non farle entrambe male. 
A spiegare le convulsioni in casa grillina ci sono poi i fattori contingenti, quelli che di solito nessuno riesce a prevedere. Come le ambizioni crescenti dell’attuale premier Conte. Il suo nome era stato riproposto da Di Maio, forzando la volontà del Pd e di Zingaretti, pensando e sperando che si limitasse a fare il mediatore come all’epoca del governo giallo-verde. Ma il ruolo alla lunga fa l’uomo, piuttosto che il contrario. Nato come referente grillino, Conte s’è trasformato in simpatizzante del Pd quando ha cominciato a pensare che di quest’ultimo, che peraltro non fa che blandirlo, potrebbe diventare il referente-alleato principale. Laddove il suo problema non è ovviamente quello di farsi un nuovo partito (chiunque vi abbia provato negli ultimi anni è sempre finito malissimo) quanto di durare nel tempo e di provare a prendersi la guida del M5S. Ovviamente nell’unico modo con cui quest’ultimo può essere conquistato e guidato: facendosi un giorno scegliere come capo da Grillo al posto di Di Maio. 

Quest’ultimo ha mangiato la foglia da un pezzo e si capisce dunque, per tornare all’inizio del nostro ragionamento, la scelta tribunizia e movimentista alla quale il video d’inizio anno sembra precludere: per tenersi il partito e per tenerlo compatto Di Maio deve dare prova di fermezza rispetto ai princìpi fondanti e tornare ai vecchi cavalli di battaglia.

Il M5S, non solo di Maio, ha infatti in questo momento un serio problema di riconoscibilità agli occhi dei suoi simpatizzanti ed elettori nel frattempo migrati altrove o a rischio di farlo. Un consenso costruito facendo leva su un fortunato mix di risentimento sociale, denuncia d’ogni establishment, giustizialismo, lotta ai privilegi e radicalismo verbale difficilmente può essere mantenuto vestendo i panni del politico responsabile che nel nome dell’interesse generale accetta il compromesso e la mediazione con altre forze. 
Mettiamoci anche il fatto che il M5S ha perso a vantaggio delle sardine la piazza e la propria capacità di mobilitarla nel segno di una politica da rifondare sulle parole d’ordine dell’onestà e della trasparenza. Si spiega anche così la gara di queste ore a chi nel M5S possa considerarsi il più fedele allo spirito ribelle e antisistema delle origini: Di Battista o Di Maio? Gara la cui conseguenza politica immediata appare evidente: più s’accentueranno i toni del populismo grillino, con la speranza di recuperare voti e di bloccare ogni tentazione di diaspora o fuga dal partito, meno durerà il governo in carica. 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA