Alessandro Campi
Alessandro Campi

Pentimenti dem/L’alleanza innaturale e la tentazione delle urne

di Alessandro Campi
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Domenica 10 Novembre 2019, 00:19 - Ultimo aggiornamento: 07:25
Ma conviene al Partito democratico protrarre l’esperienza di questo governo sino ad affondare con esso nel caso di una sua caduta anticipata e repentina? Prima di rispondere a questa domanda, facciamo un passo indietro. E ricordiamo le ragioni che, tra infiniti dubbi, hanno portato alla nascita dell’esecutivo rosso-giallo. 

La prima è stata definita un’autentica “emergenza democratica”: bisognava fermare con tutti i mezzi (quelli previsti dalla Costituzione) l’ascesa elettorale di Salvini. La sua richiesta di “pieni poteri” rivolta agli italiani in vista del voto anticipato è parsa l’annuncio di un regime assolutistico, poco importa se costruito attraverso il libero consenso dei cittadini. Ci sono fasi storiche in cui la democrazia - questo la tesi dem - va protetta legalmente dai suoi stessi sostenitori: andare alle urne dopo la crisi agostana avrebbe significato consegnare l’Italia al fronte sovranista, con ricadute istituzionali potenzialmente assai pericolose come l’elezione – nel 2022 – di un Capo dello Stato espressione politica di tale fronte.

La seconda è stata una ragione d’ordine economico, altrettanto cogente. C’era da invertire la rotta su molti fronti. I pessimi rapporti con l’Europa avevano prodotto un innalzamento pericoloso dello spread e un aggravamento della finanza pubblica.

L’applicazione pedissequa del contratto di governo aveva portato all’adozione di provvedimenti – il reddito di cittadinanza, quota cento per le pensioni – assai dispendiosi per le casse dello Stato e di netta impronta elettoralistica. Il nuovo esecutivo è nato con l’obiettivo immediato di scongiurare l’aumento automatico dell’Iva e con quello a medio termine di impostare politiche in grado di far ripartire la produzione, i consumi e l’occupazione. Avendo ben chiaro, sul piano politico, che solo una significativa ripresa dell’economia potrebbe legittimare agli occhi dell’opinione pubblica quella che è stata a tutti gli effetti un’operazione di palazzo nel segno del trasformismo.

Con queste premesse due partiti che erano stati per anni l’uno contro l’altro armati hanno stretto un’alleanza che secondo alcune previsioni col tempo dovrebbe assumere un carattere sempre più organico e strutturale. Ma sono bastate poche settimane per far venire a galla difficoltà e contraddizioni che, per tornare alla nostra domanda iniziale, sembrano consigliare soprattutto al Pd un serio ripensamento della scelta fatta a suo tempo. E se le elezioni anticipate fossero, per quest’ultimo, un danno minore rispetto al danno maggiore prodotto da un lento logoramento politico e dal mantenere in vita un governo che rischia di fare poco (soprattutto in campo economico) e di attirare su di sé un crescente malcontento popolare?

Salvini, rispetto a quanto annunciato e sperato, non ha perso nulla del consenso che aveva: i sondaggi lo danno semmai in lenta e continua crescita. Nel frattempo, lasciato il governo, ha rinsaldato la storica alleanza di centrodestra (con Berlusconi che ne ha ormai riconosciuto la leadership) e iniziato un lento riposizionamento tattico e d’immagine: meno invettive contro l’Europa e nessun dubbio sull’importanza per l’Italia di restare nell’euro, più attenzione ai temi sociali ed economici rispetto alla precedente ossessione anti-immigrati, fine degli ammiccamenti alla Russia in politica estera, un linguaggio divenuto meno aggressivo. Il voto in Umbria ha confermato la Lega come il primo e più forte partito italiano. 

I litigi continui sulla legge di bilancio e la gestione confusa della vicenda ex-Ilva hanno d’altro canto mostrato quanto sia difficile far marciare insieme partiti che hanno visioni – dell’economia, dello sviluppo, della società, della politica – troppo distanti se non opposte. Il governo tra Pd e M5S si sta rilevando un esperimento ancora più eccentrico di quanto non fosse quello tra Lega e M5S. L’esecutivo giallo-verde aveva almeno tre punti che lo giustificavano politicamente e che lo rendevano più coerente e omogeneo rispetto a quello in carica: era composto dai due partiti usciti vincitori dalle elezioni; si basava sulla solidarietà politico-generazionale tra Salvini e Di Maio; era espressione di due forze in senso lato populiste mosse da una grande ansia di rinnovamento rispetto ai precedenti equilibri di potere. 

Nel caso del governo rosso-giallo si tratta invece di far convivere un partito di establishment, ligio all’ortodossia europea e di stretta osservanza costituzional-parlamentarista, con una forza movimentista nata per dare uno sbocco politico alla protesta popolare. All’inizio è parsa funzionare la svolta moderata e centrista dei grillini, dettata probabilmente solo dalla paura delle urne. Si è anche sperato nella mediazione virtuosa e super partes del premier Conte, salvo scoprire che quest’ultimo sembra piuttosto impegnato in una partita tutta personale: si tratti della leadership futura del M5S o addirittura del Colle. Il risultato è un governo al suo interno conflittuale e privo d’un progetto comune, che difficilmente potrà aiutare l’Italia a uscire dalle secche della lunga recessione. Le opposte ricette proposte dai due partiti per risolvere la drammatica crisi di Taranto – dalla nazionalizzazione alla chiusura pura e semplice, dalla riconversione produttiva al rilancio affidato nuovamente ai privati – non sono solo il frutto di una grande incertezza sul da farsi, ma la conferma che si è voluto mettere forzatamente insieme – nel nome dell’antisalvinismo e per volontà dell’Europa – realtà politicamente inconciliabili. Ne è nato un governo che non governa, pronto a implodere al minimo incidente parlamentare.

E dunque cosa fare? Andare avanti a tutti i costi e finché possibile? Il problema riguarda soprattutto il Pd, che dall’alleanza innaturale con il M5S rischia, rispetto alle sue ambizioni riformiste e alla sua cultura istituzionale, di uscire gravemente trasfigurato. Lo si è già visto con i cedimenti politici che ha dovuto accettare (ad esempio sulla riduzione, puramente demagogica, del numero dei parlamentari imposta dai grillini). 
Superato lo scoglio della legge di stabilità, c’è da aspettare a fine gennaio l’esito delle regionali in Emilia Romagna. Un’eventuale affermazione della Lega troncherebbe la vita a questa legislatura. E per il Pd, specie dopo la decisione del M5S di non presentare un proprio candidato, sarebbe un crollo epocale e definitivo. Ma anche nel caso di una vittoria il tema del ritorno alle urne resta aperto e attuale.

Certo, per il Pd si tratta di una scelta difficile, di quelle che richiedono un grande coraggio politico e la capacità di guardare lontano. Nell’immediato c’è ovviamente da mettere in conto l’affermazione del centrodestra a guida salviniana: un trend elettorale difficile da invertire nel breve periodo. Ma c’è da considerare realisticamente anche il resto: la possibilità per il Pd di accreditarsi come la principale forza d’opposizione (come si è visto nel caso dell’Umbria è un partito, per quanto in difficoltà, ancora solido e ben strutturato) e di ridefinirsi progettualmente e sul piano organizzativo; l’ulteriore calo elettorale di un M5S in perdita continua di credibilità (perché puntellarlo nel momento del suo massimo affanno?); lo stop forzato che si darebbe ai tentativi in corso di ricostruzione di un centro più o meno moderato (come quello perseguito da Renzi e dal quale il Pd ha solo da perdere in termini di elettori e di agilità politica).

La verità è che in poco tempo s’è invertita la logica politica. Chi, dalle parti del Pd, prima diceva: “Se non facciamo un governo col M5S, vince Salvini”, adesso comincia a temere giustamente l’opposto: “Se continuiamo con questo governo, Salvini stravince”. Non converrebbe trarne le conclusioni?
 
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