Akessandro Campi

Gli errori e il futuro/La solitudine del sovranista che ora cerca i vecchi alleati

di Akessandro Campi
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Lunedì 16 Settembre 2019, 00:49
La forza di Matteo Salvini, in questo momento per lui obiettivamente difficile e incerto, è d’avere alle spalle un partito vero, di quelli che c’erano una volta: ben organizzato sul territorio, sorretto da una visione ideologica coerente (il sovranismo tricolore odierno è la prosecuzione, su una scala diversa, del micro-nazionalismo separatista professato alle origini) e con un capo riconosciuto e obbedito. 

Lo si è visto ieri col raduno di Pontida. È l’appuntamento rituale della Lega sin dai tempi di Bossi: tradizionalmente pittoresco e vitale; intriso di simbolismi primitivi spesso sconfinanti nel para-religioso (ieri paganeggianti, oggi cristianizzanti); un’occasione di festa ma anche un momento di raccoglimento identitario che spesso sconfina nella mistica collettiva (con l’omaggio ai militanti defunti).

Come tutti i raduni politici di massa, dove circolano fatalmente esaltati e spiriti fanatici, non è poi esente da scivoloni sul piano del buon gusto e della buona educazione (anche ieri, con gli insulti e gli spintoni ai giornalisti non graditi). La Lega, partito nato in epoca pre-digitale da una frattura socio-economica e politico-ideologica assai forte (quella territoriale tra Nord produttivo e Sud assistito, che impose in Italia la discussione sul federalismo e sulla possibilità di dare allo Stato unitario repubblicano una nuova forma costituzionale) non ha solo milioni di elettori, che come è noto si sono ormai fatti assai volatili e infedeli.

Ha gruppi parlamentari compatti, una vasta rete di amministratori locali (in molti casi di lunga esperienza), quadri dirigenti selezionati sulla base di un lungo tirocinio interno, militanti motivati e assai fedeli alla causa (spesso con la mentalità del soldato politico).

Il possesso di un simile capitale, nell’epoca in cui sembrerebbe predominare la politica fluida o liquida, ovvero la politica ridotta a comunicazione e marketing, basta a spiegare perché appaiano prematuri certi giudizi liquidatori su Salvini. Se fosse solo un abile e spesso brutale smanettatore sui social probabilmente non avrebbe futuro. Ma avendo dietro di sé un corpo politico solido – il più antico partito sulla scena nazionale, al governo in tutto il Nord produttivo – considerarlo un politico a fine corsa, o finalmente neutralizzato dopo che aveva accarezzato il sogno di vedersi affidare pieni poteri per via elettorale, pare più una speranza che un giudizio. 

Resta il fatto che nell’ultimo mese Salvini ha sbagliato quasi tutte le sue mosse, avendone sbagliate molte altre anche quando i sondaggi lo vedevano crescere ad un ritmo vertiginoso. Ciò significa che, passata la rabbia per la nascita del governo giallo-rosso, che potrebbe durare proprio perché frutto di un patto di potere come lo stesso Salvini denuncia, molte cose egli dovrà rivedere sul piano della strategia e delle idee. Le sconfitte, in politica come nella vita, servono anche per riflettere sugli errori commessi e sulle cose nuove da fare. 

Ad esempio, il sovranismo nel modo in cui l’ha declinato, come chiusura al resto del mondo, s’è visto che non funziona: è puro difensivismo che porta all’isolamento. In questo modo non si tutela alcun interesse nazionale, se non a chiacchiere. Oltretutto è una posizione che non gli ha portato nulla sul piano delle relazioni internazionali, terreno sul quale ha pagato anche la sua ambigua oscillazione tra Washington e Mosca. Lasciamo perdere poi l’illusione di poter fare squadra in Europa coi nazionalisti francesi, polacchi o ungheresi. Alla fine, pur essendo il secondo partito più votato in Europa, dopo i cristiano-democratici tedeschi, la Lega si è trovata senza alleati, senza ruolo e senza incarichi. 

Autolesionistica, col senno del poi, è stata anche la virata religiosa in senso cattolico-tradizionalista messa in scena da Salvini. Un conto infatti è intestarsi la battaglia sui valori religiosi negletti dalla cultura post-moderna, scelta da politico conservatore, un conto è pretendere di apparire agli occhi degli italiani più cattolico e devoto del Papa, sino ad assumere atteggiamenti quasi scismatici, scelta da politico nichilista. Così come non si può pretendere, avendo dinnanzi una struttura altamente centralizzata come la Chiesa, di giocare i parroci vicini al popolo contro le gerarchie vaticane amiche delle Ong. 

Noiosamente ripetitiva è stata poi la costante polemica salviniana contro i poteri forti, ai quali ha imputato anche la nascita del nuovo governo giallo-rosso. Il cospirazionismo è sempre auto-giustificatorio. Salvini ne ha abusato per nascondere la difficoltà sua e della Lega a intrecciare i rapporti con le tecno-strutture e i blocchi di interessi organizzati necessari a governare uno Stato. Come già Berlusconi, anche Salvini ha confuso il consenso elettorale col potere sociale. Per voler stare demagogicamente dalla parte del popolo, ha trascurato le relazioni con le élite: che non sono gli speculatori internazionali che agiscono nell’ombra o i privilegiati dalla nascita (una visione semplificata del mondo che converrebbe lasciare ai grillini), ma coloro che eccellono – spesso per meriti personali e in virtù delle posizioni professionali che occupano – nei diversi settori della società. Salvini vuole governare o vuole fare l’oppositore o il contestatore a vita?

Ieri a Pontida il leader leghista in realtà non ha dato grandi segni di resipiscenza rispetto a questi temi. Per lui e la sua base, comprensibilmente, è ancora la fase della rabbia e della delusione. E della riproposizione meccanica e rassicurante dei vecchi slogan. Ha dunque inveito contro l’Europa dei burocrati. Ha insistito sul cavallo di battaglia della flat tax: insostenibile per la casse pubbliche italiane e forse alla base della sua decisione di sfilarsi dal governo, quando ha capito che questa promessa non avrebbe mai potuto mantenerla (ma allora perché riproporla?). E naturalmente ha insistito sull’immigrazione, che col nuovo governo, secondo lui, rischia di tornare selvaggia e incontrollabile: da qui l’idea di un referendum se si cercherà di smantellare i suoi decreti sulla sicurezza. 

Referendum che dovrebbe riguardare anche la legge elettorale. E qui si segnala, al contrario, una novità. Circola nel nuovo governo la tentazione esplicita di varare una legge elettorale integralmente proporzionale: il suo iter allungherebbe i tempi della legislatura, la sua approvazione toglierebbe a Salvini ogni ambizione di vittoria solitaria. Ma il prezzo di questa scelta sarebbe il frazionamento partitico, l’esautoramento degli elettori da ogni scelta rispetto ai candidati in lizza (con le liste bloccate) e una crescente ingovernabilità (con le coalizioni di governo che si formano non prima delle elezioni ma dopo il voto attraverso le negoziazioni in Parlamento tra partiti). Piace agli italiani questo ritorno al passato per pure ragioni strumentali? Probabilmente no. E ciò ha indotto Salvini a farne un nuovo motivo di battaglia in chiave anti-partitocratica, interessante da seguire non solo perché così toglie un motivo di propaganda al M5S, ma anche perché l’opzione per il maggioritario riapre il dialogo nel centrodestra nella prospettiva della sua ricostituzione. Sembra infatti venuta meno l’ambizione salviniana ad egemonizzare, se non a fagocitare, i vecchi alleati berlusconiani e della destra nazionalista, abbandonati dopo il voto del marzo 2018 a vantaggio dei grillini.

Ieri a Pontida la Lega ha festeggiato se stessa e il su capo indiscusso. Ma il prossimo 19 ottobre tornerà in piazza con Berlusconi e con Fratelli d’Italia. Se non è un ritorno al passato, è una scelta nel segno del realismo. Salvini, dopo le batoste in Europa e in Italia, sembra aver capito una cosa semplice: da solo è forte, ma da solo perde sempre. 

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