Alessandro Campi
Alessandro Campi

Il panino a scuola/Un piccolo grande caso di libertà negata

di Alessandro Campi
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Mercoledì 31 Luglio 2019, 00:39
Ancora una volta il diritto si è sostituito alla politica, alle consuetudini sociali e al buon senso, individuale e collettivo. Cosa un bambino debba mangiare a scuola lo ha perciò deciso ieri in via (all’apparenza) definitiva la Cassazione, dopo quasi cinque anni di polemiche e di opposte decisioni giurisprudenziali: solo il pasto erogato durante il servizio mensa. Più sicuro dal punto di vista igienico-sanitario, ma soprattutto più rispettoso del principio di eguaglianza che per definizione deve informare la sfera dell’istruzione pubblica obbligatoria.

Mangiare il tradizionale panino preparato a casa (dalla mamma o dal babbo, così non si lamentano i cultori della parità di genere sempre e comunque) sarebbe insomma potenzialmente insalubre, pericolosamente discriminatorio e altamente diseducativo.
La notizia secondo cui, nel formalismo linguistico della Suprema Corte, «un diritto soggettivo e incondizionato all’autorefezione individuale, nell’orario della mensa e nei locali scolastici, non è configurabile», sembra fatta apposta per accendere una divertente polemica estiva. Verrebbe facile ironizzare sul “caso michetta” (già si annunciano ricorsi, ulteriori carte bollate e la mobilitazione del “movimento per il panino” che di questi temi potrebbe anche diventare un partito). 

Oppure sostenere che solo in Italia si possono sprecare tante energie per una questione così futile. In realtà dietro la questione di costume ci sono interessanti riflessi politico-sociali sui quali forse vale la pena riflettere.
In democrazia conta più l’eguaglianza o la libertà? Rispetto a quest’annosa alternativa, sulla quale si sono sprecati fiumi d’inchiostro, la sentenza sembra fare una scelta precisa: «L’introduzione di vari e differenziati pasti domestici nei locali scolastici inficia il diritto degli alunni e dei genitori alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo comprensivo del servizio mensa». La libertà di mangiare ciò che (letteralmente) più ci piace – considerata anche la diversità di abitudini e tradizioni culinarie che è tipica ancora oggi dell’Italia anche all’interno di uno stesso territorio (senza considerare la presenza crescente nelle nostre scuole di bambini/e d’origine straniera) – conta meno dell’educazione intesa processo formativo che persegue l’eguaglianza come obiettivo e come valore. Ma la scuola non dovrebbe piuttosto favorire la libera formazione della personalità, il che significa permettere a ognuno di coltivare le proprie preferenze (anche alimentari) e di sviluppare i propri talenti? L’impressione è che anche in questo caso si sia confuso tra l’eguaglianza come opportunità di accesso (all’istruzione pubblica e ai servizi scolastici) con l’eguaglianza come condizione sociale da garantire e imporre dall’alto. La possibilità di fare una cosa è cosa profondamente diversa dall’obbligo a farla.

Secondo i giudici della Cassazione «l’istituzione scolastica è un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità». Ma può essere interesse (soggettivo) di un alunno il fatto che un altro alunno non eserciti il suo interesse (soggettivo) a mangiarsi il panino portato da casa? Dal riferimento nella sentenza al diritto anche «dei genitori alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo» si comprende come – imponendo l’obbligo di mensa – si vuole impedire «una discriminazione in base alle condizioni economiche», nel senso che il pasto consumato individualmente sarebbe in realtà rivelatore di una condizione sociale disagiata spacciata per libertà di scelta. Ma non si commette in questo modo una discriminazione più grande, o comunque speculare a quella che si vorrebbe evitare, costringendo tutti a mangiare a mensa, ovvero lasciando ai genitori, come unica libertà, di portare i loro figli a casa per il pasto per poi riportarli a scuola?

Sempre nella sentenza si legge: «La nozione di istruzione, soprattutto nelle classi elementari e medie, non coincide con la sola attività di insegnamento, ma comprende anche il momento della formazione che si realizza mediante lo svolgimento di attività didattiche ed educative, tra le quali l’erogazione del pasto è un momento importante». Mangiare quel che serve la mensa viene considerato parte integrante del processo formativo: contribuisce a rafforzare lo spirito di gruppo e ad accrescere l’integrazione sociale. Ma la socializzazione coatta e imposta, in ogni singolo momento della giornata scolastica, pasti inclusi, non è detto che crei un autentico spirito comunitario. Coltivare i propri spazi di autonomia e di libertà individuale dovrebbe essere considerato a sua volta parte del processo formativo – ammesso che mangiare un panino da soli serva a questo scopo. Più in generale, ha senso considerato il tempo trascorso a mensa come qualcosa di vincolante e obbligatorio dal punto di vista educativo? In questo ragionamento s’intravvede un’idea dell’eguaglianza che sconfina nel gregarismo.

Resta l’impressione, leggendo questa sentenza su una questione nel complesso marginale e persino eccentrica, che ci sia come una perversa tendenza delle società che si fregiano dell’etichetta di liberali a voler regolamentare con strumenti legali ogni singolo aspetto della vita collettiva e ogni comportamento sociale. Ma l’ipertrofia normativa è l’esatto contrario del liberalismo comunque inteso, dal momento che riduce gli spazi di azione individuale, accresce le maglie della burocrazia e induce al conformismo. Il paradosso è che questa tendenza a stabilire dall’alto cosa sia permesso e cosa sia vietato anche con riferimento alle nostre più minute azioni quotidiane (ad esempio il mangiare un panino a scuola invece del pasto offerto dalla mensa) risponde ad intenzioni all’apparenza nobili: in questo caso impedire discriminazioni e favorire un’autentica solidarietà sociale. Ma siamo sicuri che lo spirito di condivisione e la tolleranza, che pure la sentenza indica come valori da perseguire nell’ambito delle attività di insegnamento, si conseguano attraverso l’uniformità dei comportamenti e la riduzione degli spazi di scelta individuale? 

In realtà, la sentenza, a leggerla con attenzione, è meno ultimativa di quanto sembri. Aver rimesso all’autonomia organizzative delle scuole «le scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa», infatti, lascia aperta la possibilità che laddove ce ne siano le possibilità dal punto di vista gestionale e laddove esista un accordo con le famiglie e tra le famiglie, come peraltro nel recente passato è accaduto in molte realtà locali, si possa tranquillamente lasciare libertà di scelta tra il servizio mensa e il pasto preparato a casa. Sarebbe, nel rispetto che sempre si deve al diritto e alle regole imposte dalla politica, la vittoria della ragionevolezza e del buon senso, che per la convivenza sociale sono fattori non meno importanti di coesione.

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