Alessandro Campi
Alessandro Campi

Sfida per Strasburgo/La paralisi parlamentare travestita da tregua

di Alessandro Campi
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Lunedì 7 Gennaio 2019, 01:28
Politicamente il 2019 si è aperto con la stessa domanda con la quale s’è chiuso il 2018: quanto (e a quali condizioni) può durare quest’inedito esperimento di governo?
L’idea che esso possa continuare a lungo, a dispetto dei quotidiani contrasti tra alleati, è in effetti sostenuta da diversi fattori. Il primo dei quali è che il potere, come spesso si ripete, è un collante straordinario. Spartirsi poltrone e incarichi è meglio che correre il rischio di perderlo per ragioni di coerenza con i valori che si sbandierano. In politica non c’è nulla di assoluto: ogni principio o promessa o enunciato, se serve e conviene, può essere derogato e smussato. Tanto più che nell’epoca post-ideologica gli elettori di tutto sembrano preoccuparsi meno che della fedeltà dei leader alle idee che questi ultimi professano e che, come si vede dall’esperienza, tendono a cambiare in continuazione.
C’è poi da considerare la reciproca convenienza di non farsi male, litigando sino ad aprire una crisi, nell’imminenza di un appuntamento elettorale – le europee 2018 – che si annuncia premiante sia per la Lega che per il M5S, anche se a parti significativamente invertite rispetto alle politiche del marzo dello scorso anno. 
Ma ci sono altre ragioni che sulla carta rendono questo governo più forte di quanto i suoi critici ammettano.


Il patto generazionale stretto tra Salvini e Di Maio contro la vecchia classe dirigente italiana, che è un fattore di consonanza antropologica forse più decisivo d’ogni possibile intesa programmatica; la vacuità progettuale e la disarticolazione organizzativa delle opposizioni al momento presenti in Parlamento (di quelle che esistono solo nel mondo virtuale d’un certo giornalismo politico nemmeno mette conto parlare); una corrente d’opinione maggioritaria che sembra volere esattamente – nei contenuti e nei toni – ciò che Lega e il M5S propongono e propagandano e che gli altri partiti, si parli d’immigrazione o di sicurezza personale, di politiche sociali a difesa delle classi meno agiate o di riforma delle pensioni, tende a liquidare grossolanamente come fascismo nemmeno più mascherato o come demagogia sorretta solo dall’incompetenza. 

<HS9>Ciò detto la questione rimane: quanta e quale vita aspetta l’esecutivo giallo-verde in carica? Lo strapotere di Salvini su Di Maio in termini politici e d’immagine ha prodotto una inversione dei rapporti di forza, personali e tra i rispettivi partiti, talmente repentina e clamorosa che difficilmente essa potrà restare senza conseguenze da una parte e dall’altra. La tentazione di Salvini di passare quanto prima all’incasso del consenso nominale di cui gode sondaggi alla mano è infatti pari alla necessita in cui Di Maio si trova di dover frenare il suo straripante alleato prima che per lui sia troppo tardi. E l’unico modo per farlo è impedire che il primo possa presentarsi agli elettori, da qui a qualche mese, sbandierando come suoi personali successi tutti i punti forti della piattaforma leghista. Che approvato il decreto sicurezza e inserita nella Legge di Stabilità la fatidica quota cento sulle pensioni, restano a questo punto la riforma della legittima difesa e l’aumento delle competenze alle Regioni. 

<HS9>Esattamente i due fronti sui quali è facile immaginare che si accentuerà lo scontro, pubblico e sotterraneo, tra leghisti e grillini. Per questi ultimi, fare interdizione su queste materie – chiedendo che vengano riviste alle loro condizioni (legittima difesa) o drasticamente depotenziate nella realizzazione e negli effetti (autonomia regionale) – non è più un problema di fronda interna, ma di sopravvivenza politica. Non si tratta in altre parole di acquietare la sinistra movimentista e di bloccare sul nascere una possibile diaspora parlamentare, ma d’impedire, da un lato, la fuga di pezzi consistenti del proprio elettorato e, dall’altro, di essere oscurati ancora di più dal proprio alleato. 
<HS9>Si tratta peraltro di due materie su cui è difficile immaginare una mediazione di quelle che poi permettono a tutti di presentarsi come vincitori. Sulla legittima difesa si tratta di accettare o meno, secondo quanto già votato in Senato lo scorso mese di ottobre, il caposaldo leghista secondo il quale chi si difende da un attacco violento, in casa propria o sul luogo di lavoro, si trova sempre in una condizione di grave turbamento e dunque legalmente in una posizione di legittima difesa: quale che sia l’entità della reazione essa è sempre proporzionata all’offesa ricevuta o minacciata.

Su questo punto ideologicamente dirimente della nuova legge, quando si tratterà nelle prossime settimane di approvarla definitivamente alla Camera, o cede la Lega o cede definitivamente il M5S, come peraltro è già accaduto durante la prima votazione a Palazzo Madama, quando tutti gli emendamenti grillini, che puntavano a limitare i casi di non punibilità per chi si difende sparando e magari uccidendo, furono ritirati.
<HS9>Ancora più delicata, se possibile, è per il M5S la scelta se avallare o meno la riforma dell’autonomia regionale, che dovrebbe dare seguito al risultato dei due referendum consultivi promossi dalla Lombardia e dal Veneto dell’ottobre del 2017 e alle rivendicazioni di maggiori competenze provenienti dalla grande parte delle Regioni del centro-nord. Per un partito che nel Sud ha conquistato molti dei propri consensi assecondare in Parlamento questo disegno potrebbe comportare un prezzo elettoralmente assai salato: concedere alle Regioni più ricche di trattenere la gran parte delle tasse riscosse – secondo la richiesta che è soprattutto del governatore del Veneto Luca Zaia e in generale dell’intera Lega – potrebbe infatti comportare una drastica riduzione dei trasferimenti dallo Stato verso i territori economicamente meno sviluppati del Meridione.

<HS9>Dal punto di vista del M5S, alle prese con sondaggi sempre meno rassicuranti e con una leadership interna tutt’altro che assoluta come è invece quella di Salvini, dare battaglia su questi temi appare dunque inevitabile. Con il prezzo che è però facile immaginare. Da un lato, si accresceranno le fibrillazioni nell’azione di governo, cui si siamo abituati da quando quest’ultimo è nato. Dall’altro, si aggraverà ancor più lo stato di sostanziale inattività che da mesi caratterizza le Camere e che poco promette di buono per il futuro della democrazia italiana, ormai sul punto ormai di trasformarsi in un regime post-parlamentare de facto. Se il M5S si metterà di traverso, a colpi di emendamenti e cavilli politico-procedurali, ai due provvedimenti cari alla Lega, quest’ultima risponderà con la stessa moneta nei confronti delle misure care ai grillini: ad esempio le modifiche costituzionali in materia di referendum e democrazia diretta, o l’intervento-simbolo sul taglio degli stipendi ai parlamentari. Non può che nascerne un gioco di reciproche interdizioni. Con i due alleati che nel tentativo di imporre le reciproche priorità legislative e propagandistiche finiscono per bloccarsi vicendevolmente. Dal contratto di governo per il cambiamento ad una forzata convivenza nel segno dell’immobilismo parlamentare e di governo il passo, purtroppo per l’Italia, rischia di essere assai breve.
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