Alessandro Campi
Alessandro Campi

Partiti al tramonto/ Il terremoto a Berlino cambierà l’Europa

di Alessandro Campi
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Lunedì 29 Ottobre 2018, 01:01 - Ultimo aggiornamento: 01:04
La stabilità politico-economica della Germania è sempre stata la premessa e la garanzia di quella europea. Ora, se l’economia tedesca continua ad essere solida e dinamica, il suo sistema partitico – storicamente basato sul duopolio e spesso sulla collaborazione al governo di popolari e socialdemocratici – sta subendo una profonda trasformazione, sulla scia di quanto già accaduto in altri Paesi europei.
Normale chiedersi, a pochi mesi dalle elezioni europee, quanto le inquietudini dei cittadini tedeschi – in fuga dai partiti tradizionali sebbene in Germania siano assenti i fattori di insofferenza e rabbia sociale presenti altrove, a partire dallo spettro della disoccupazione – possano incidere negativamente sulle future decisioni di quelli europei. La grande coalizione che governa a Berlino è, su scala nazionale, la stessa formula di compromesso che regge da decenni gli equilibri politici del Vecchio Continente. Con i cristiano-conservatori (l’Unione democristiana formata dalla Cdu e dalla Csu) e i socialdemocratici da anni in perdita costante di consensi e ormai apertamente in crisi anche in Germania (alle elezioni federali del 1976 insieme toccarono il picco del 91,2% dei voti, a quelle del 2017 la loro percentuale è stata del 53,5%, nelle proiezioni in caso di voto anticipato non arrivano ormai al 50%) quali nuove alleanze si possono immaginare per il futuro Parlamento europeo? 
Quella popolari-populisti, soprattutto se dovesse proseguire il collasso della sinistra riformista, rischia di essere, detto per inciso, l’unica possibile. Con la Merkel sempre più debole e ormai quasi ad un passo dalla fine della sua carriera politica (e con Macron che in Francia a sua volta sta scontando un drastico calo di popolarità) che ne sarà dell’ambizioso piano di riforme della Ue del quale i due leader, dopo averlo elaborato, dovevano essere i garanti rispetto agli altri Paesi europei e, soprattutto, i realizzatori?
Come ha spiegato l’ex premier spagnolo Josè Maria Aznar nell’intervista concessa a questo giornale nei giorni scorsi, abbiamo passato mesi a discutere della Brexit o delle esasperazioni nazionalistiche di Orbán senza renderci conto che il vero pericolo per l’Europa, come si è compreso in queste ultime settimane, potrebbe essere rappresentato dallo smottamento partitico in corso in Germania. Non è forse vero che è stata proprio la disarticolazione del sistema politico-istituzionale di Weimar ad innescare, nei primi decenni del secolo scorso, la crisi mortale delle democrazie europee? 
Il risultato delle elezioni di ieri nella prospera Assia (confermando quanto accaduto appena quindici giorni fa nell’altrettanto ricca Baviera) rendono ancora più pressanti questo interrogativi sul futuro politico della Germania e dunque dell’Europa. Le due classiche Volksparteien – Cdu e Spd, partiti di iscritti e di apparati con una forte caratterizzazione ideologica e forse proprio per questo espressioni sempre più deboli di un’epoca storica al tramonto – hanno perso entrambe quasi 11% dei voti: un collasso. A sinistra sono cresciuti i Verdi: vicini al 20% hanno quasi raddoppiato i consensi che avevano eguagliando la Spd (dovrebbero avere entrambi 25-26 seggi). A destra i nazional-populisti di Alternative für Deutschland hanno triplicato i voti: dal 4,1 al 13,2% (17-18 seggi stando alle prime proiezioni): sono ormai una presenza stabile in tutti i parlamenti regionali. Ma sono cresciuti anche i liberali (7,7%) e, seppure di poco, la sinistra della Linke (6,1%), a conferma di un voto al tempo stesso altamente polarizzato (sul piano dei programmi e dei valori) e sempre più frammentato dal punto di vista degli attori attivi sulla scena parlamentare: la combinazione perfetta per mettere in crisi un sistema partitico.
Le conseguenze immediate di questo risultato sul governo guidato dalla Merkel al momento non sono chiare. Bisognerà vedere, ad esempio, se l’attribuzione finale dei seggi consentirà la riformazione in Assia della precedente maggioranza tra Cdu e Verdi con la conferma del governatore uscente Volker Bouffier, fedelissimo della Cancelliera. In ogni caso, è possibile che i socialdemocratici, dopo quest’ennesima batosta, decidano di sfilarsi dalla Grande Coalizione nazionale: potrebbe venirne fuori un governo Merkel di minoranza, fatalmente debole; un nuovo tentativo di dare vita ad una coalizione tra democristiani, Verdi e liberali, ma la Jamaika Koalition a livello federale è già fallita dopo il voto del settembre 2017 e riproporla non sarà facile; ovvero persino elezioni anticipate che però per i due vecchi partiti, in questa congiuntura, potrebbero rivelarsi un bagno di sangue. 
Resta da capire come interpretare questo nuovo successo dei Verdi, letto con interesse soprattutto dagli europeisti che temono l’avanzata dei populismi di destra. Anche questa crescita è parte di un trend europeo, se si guarda al successo degli ecologisti in Austria (alle presidenziali del dicembre 2016) o, più di recente, alle elezioni comunali in Belgio e in quelle nazionali in Lussemburgo. Sembrano ormai l’alternativa, sulla base di un mix di pragmatismo post-ideologico, leadership giovanili ma per nulla aggressive o demagogiche, europeismo critico e accoglienza governata dalle regole e da spirito di umanità, ad una sinistra tradizionale le cui mitologie di stampo ottocentesco sono state travolte dalle trasformazioni tecnologiche e dai cambiamenti radicali del mondo del lavoro.
Ma sono anche una peculiare espressione della società del benessere, ai quali soprattutto le nuove generazioni sono particolarmente sensibili: migliore qualità della vita nei contesti urbani, lotta all’inquinamento, difesa dell’ambiente, animalismo, ecc. Anche queste, se si vuole, sono questioni che attengono alla sicurezza e ai timori per il futuro: la differenza è che i populisti le declinano in chiave anti-immigrati, di chiusura nazionalistica e secondo politiche “law & order”; gli ecologisti in termini di modelli alternativi di sviluppo sociale ed economico. Ognuno ha i suoi spettri: che l’invasione degli stranieri, chi la catastrofe ambientale.
Viene ovviamente da chiedersi perché il “Sole che ride” incontra successi in molti parti d’Europa mentre invece in Italia è tramontata. La ragione? Un po’ sono stati spiazzati dal fatto che queste tematiche sono state fatte proprie e cavalcate dal M5S, anche se appaiono trascurate dall’attuale esperienze di governo. Ma molto dipende dal fatto che gli ambientalisti italiani, rispetto al cammino fatto registrare dai loro omologhi europei, scontano un doppio ritardo. Da un lato, sono sempre rimasti una ruota di scorta o semplici fiancheggiatori della sinistra istituzionale, senza mai diventarne un concorrente diretto. Dall’altro, hanno mantenuto una visione dell’ambientalismo nel segno del settarismo e dell’intransigenza: la “cultura del no” (soprattutto in materia di grandi opere e di investimenti industriali) invece del pragmatismo riformista che caratterizza gli attuali Verdi in Germania e che li ha resi, anche agli occhi di un elettorato spesso moderato e conservatore, una forza di governo credibile, mentre in Italia sono soltanto una minoranza chiassosa e politicamente sterile. 
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