Lavoro, Roberto Benaglia (Fim-Cisl): «Un accordo quadro per regolare lo smart working»

Lavoro, Roberto Benaglia (Fim-Cisl): «Un accordo quadro per regolare lo smart working»
di Marco Barbieri
5 Minuti di Lettura
Martedì 27 Aprile 2021, 08:17

La conversione del sindacato all’onda lunga del welfare aziendale non è stata uniforme. Resistenze culturali e ideologiche, depotenziamento della rappresentanza e della contrattazione nazionale a vantaggio di accordi a livello aziendale, fino alla sollecitazione verso la disintermediazione del personal mix di prestazioni e benefit: tutti elementi che dal 2016 (l’anno della legge di stabilità che ha reso il welfare aziendale un vantaggio fiscale diffuso per aziende e lavoratori) hanno innescato dibattito e contrapposizioni all’interno delle organizzazioni sindacali. Di certo la Cisl ha guidato questa stagione, con meno travagli di quelli vissuti nella Cgil, tanto per fare un confronto. E Roberto Benaglia è stato fin dall’inizio tra i più convinti sostenitori del percorso avviato. Oggi segretario nazionale della Fim-Cisl ha guidato la vertenza che ha portato alla firma del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, con incluso tanto welfare aziendale. «Oggi la sfida è quella del mutualismo. Il welfare contrattuale che si è diffuso – commenta Benaglia - favorisce il consumo individuale dei benefit previsti. La contrattazione deve affrontare questo nodo».

Un rigurgito di collettivizzazione nel tempo della disintermediazione e dell’individualità più spinta?

«Ma no. Il problema è ottimizzare i vantaggi. Oggi il welfare aziendale non è ancora universalistico. Ma per chi già ne fruisce, potrebbe essere più efficace per risolvere i bisogni meno aggredibili dalla singola persona. Pensi agli asili nido. Con un contributo di un euro al mese la nostra categoria (1,5 milioni di lavoratori metalmeccanici in Italia, ndr) potrebbe creare un fondo nazionale per assicurare l’accesso agli asili nido per tutti, piuttosto che sperare nelle più avanzate soluzioni aziendali, auspicabili, ma non esclusive. L’asilo nido è uno di quei bisogni che possono orientare la preferenza di un posto di lavoro rispetto a un altro. Conosco lavoratori che hanno scelto aziende in relazione all’erogabilità di un bonus asili nido. Con un approccio mutualistico e contrattuale potrebbe essere un obiettivo per tutti».

Mutualismo e solidarietà, sono temi sempre più ricorrenti nel tempo della pandemia, e lo saranno nel dopo-Covid. Eppure, molti lavoratori esprimono la propria preferenza per i buoni spesa.

«Vero. E comprensibile. Il buono pasto, il buono spesa, il buono benzina sono facilmente capitalizzabili. Salvo poi accorgersi che un problema più grande è quello che ti si presenta quando devi fare i conti con l’assistenza a un genitore anziano o a un figlio diversamente abile. E di fronte a questi temi non c’è altro che la mutualità, la rete solidale, la canalizzazione a livello contrattuale. Da solo non ce la fai. Occorrono risorse che solo la mutualità può assicurare».

Meno buoni benzina e più asili nido. Potrebbe essere una sintesi del welfare aziendale post-Covid; però si rischia di alleggerire la busta paga dei lavoratori.

«Sono due questioni distinte, solo in parte sovrapponibili. Bisogna alzare i salari: e questa è una priorità. Ma per molti lavoratori oggi c’è una evidente questione che attiene allo stile di vita, la conciliazione vita-lavoro è un problema sempre più avvertito. Pensi alla gestione del tempo.

Il welfare non può essere solo rimborsi e defiscalizzazione, ma anche gestione diversa del tempo. Ci deve essere una libera scelta per poter scambiare quote di salario, con quote di tempo. La flessibilità deve guidare le nostre scelte. Ci sono bisogni di cui il sindacato deve tenere conto in fase di contrattazione e la contrattazione è fondamentale per chi lavora nelle piccole imprese dove senza la norma contrattuale nazionale sarebbero assenti molte tutele, non solo i piani di welfare».

In questa fase di profondo cambiamento in atto, lo smart working sta modificando anche alcuni dei principi che hanno guidato l’incrocio tra busta paga e benefit di welfare aziendale. Chi lavora da casa spesso si trova senza buono pasto. I costi della mobilità sono fortemente ridotti, ma viene meno un contributo come il buono benzina, denaro contante.

«Sì, ma i risparmi importanti che stanno facendo le aziende devono essere in qualche modo restituiti ai lavoratori. Non arrivo a dire che bisogna concorrere al pagamento delle utenze elettriche o telefoniche, per il lavoro svolto a casa, ma questo efficientamento per l’impresa deve essere redistribuito».

Lo abbiamo evocato più volte: parliamo di smart working. Il nuovo welfare aziendale dipenderà molto da come e da dove i lavoratori presteranno la loro opera.

«Oggi lo smart working è diventato un fenomeno di massa. Gli osservatori più accreditati dicono che siano oltre 5 milioni i lavoratori che sono impiegati da remoto. Quanti saranno alla fine dell’emergenza sanitaria è difficile prevederlo. Di certo non si tornerà indietro, rispetto al fenomeno. Lo smart working è una novità obbligata di cui dovremo tenere conto per sempre, in futuro. La flessibilità sarà sempre più irrinunciabile. Si dovrà trovare un equilibrio tra presenza e distanza. Si dovrà provvedere a una contrattazione nazionale sul tema».

Non bastano i contratti aziendali che si stanno moltiplicando?

«Credo che sia necessario un accordo quadro nazionale. Non dobbiamo dimenticare che nel nostro Paese oltre il 90% delle imprese è una Pmi. Non bastano gli accordi aziendali più “illuminati” nelle grandi aziende. Serve una contrattazione nazionale che tuteli tutti, anche in tema di smart working».

O potrebbe bastare una nuova legge che aggiorni la 81 del 2017?

«Direi: più contrattazione e meno legge. La flessibilità contrattata è meglio di una norma di legge troppo rigida. E poi ricordiamoci che la contrattazione evita di farci precipitare nei vuoti normativi, come quello che si aprirà il 2 maggio. Il decreto legge “Sostegni” infatti non ha reiterato la gestione emergenziale che ha accompagnato da oltre un anno la pandemia e che scade il prossimo 30 aprile. È altresì poco prevedibile che tale dimenticanza possa essere corretta in sede di conversione parlamentare del decreto, che avverrà sicuramente nel mese di maggio inoltrato. Siamo di fronte a un possibile salto nel vuoto nel rapporto tra lavoratore e impresa che getta nell’incertezza una platea importante di lavoratori, a cui bisogna porre rapidamente rimedio. Non possiamo pensare che la soluzione possa essere la definizione di milioni di accordi individuali che lascerebbero in questo caso il lavoratore in una posizione debole. Le regole della legge 81 erano state pensate per imprese motivate e lavoratori volontari».

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