Maré: «Welfare? Chi può se lo deve pagare, impossibile ormai dare tutto a tutti»

Maré: «Welfare? Chi può se lo deve pagare, impossibile ormai dare tutto a tutti»
di Marco Barbieri
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Mercoledì 25 Settembre 2019, 06:19
Primo, secondo, terzo pilastro? Bisognerebbe ripensare tutto. Le scelte individuali di welfare devono essere favorite e sostenute. Dare tutto a tutti oggi non è più possibile». Mauro Maré non è tipo da sentenze apodittiche. Anzi, insiste nel ragionamento e nell’analisi, spacca il capello in quattro, ma quando serve non si sottrae alle sintesi, anche se non seguono il mainstream. Lo si nota con i suoi tweet ruvidi e sagaci. Mai accondiscendenti alla moda del momento. E con il gusto del contraddittorio che non lo abbandona, rafforzato da una competenza economico finanziaria non comuni. Docente di Scienze delle Finanze, è presidente di Mefop spa (la società controllata dal Mef, nata per studiare i Fondi pensione e per formare i loro amministratori, oggi è sempre più rivolta a 360 gradi a favorire lo sviluppo delle diverse forme di welfare). Consigliere economico dell’ex ministro Pier Carlo Padoan, è stato tra i principali candidati alla guida dell’Inps fino alla nascita del governo giallo-verde. Per opinione diffusa, è uno dei pochi in grado di rivolgere uno sguardo di insieme al reticolo del sistema del welfare.
Professor Maré, parliamo di welfare integrativo. Cioè privato. C’è chi ancora si turba ad ammettere la necessità di pensare a un welfare necessariamente pubblico-privato. Qual è la sua opinione?
«La pubblicizzazione del welfare, che vorrebbe dire farlo poggiare solo sul sistema fiscale, è ormai impraticabile. Non è sostenibile. Non ci sono i soldi».
Dunque, o si aumentano le tasse o si riducono le protezioni sociali a carico del pubblico.
«Inevitabile. La pressione fiscale deve diminuire, certamente non possiamo immaginare che cresca. Si deve invece operare con determinazione contro l’evasione, si deve riflettere sulle basi imponibili, si deve pensare sempre all’orizzonte distributivo, ma il Fisco non può più dare tutto a tutti. Si devono favorire le scelte individuali di welfare. Il sostegno pubblico deve riguardare solo chi non ce la fa. Chi può, deve pagarsi il suo welfare».
Una ricetta liberale o liberista?
«Né l’una né l’altra. Individualizzare il welfare è una necessità. Abbiamo ragionato per troppo tempo di primo, secondo, terzo pilastro. E’ cambiato tutto».
Da dove partiamo?
«Dalla demografia. L’ultimo rapporto Ocse dice che in Italia abbiamo lo stesso numero di lavoratori e di pensionati. Con un rapporto di uno a uno il sistema a ripartizione della previdenza pubblica, per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, non può resistere. Certo non può assicurare ai nostri figli le prestazioni garantite ai nostri padri».
Quindi ognuno per sé? E la solidarietà, il patto tra le generazioni?
«E’ per questo che il privato deve avere spazio nel sistema complessivo di welfare. Vuol dire che chi può deve pagarsi le prestazioni. Sia nella previdenza, ma anche nell’assistenza sanitaria».
I tecnici parlano di opting out. In Germania è già possibile: se voglio posso contribuire di meno al sistema pubblico, ma poi non posso più chiedere le prestazioni pubbliche.
«L’orizzonte mi sembra giusto, ma una ipotesi del genere temo che in Italia non passerebbe, ci sarebbero le resistenze delle parti sociali; eppure è una soluzione praticata in molti Paesi. Nel sistema sanitario, per esempio. Lo aveva rilanciato l’ex ministro Elsa Fornero. Senza successo. Ma si è visto come è stata scardinata anche la sua riforma delle pensioni. Quota 100 è un problema che deve essere risolto. Se il privato deve pagare quello che può, il pubblico deve limitarsi a pagare quello che è ragionevole. E non è ragionevole pagare la pensione quando le persone sono ancora in età da lavoro».
Quindi? Siamo allo stallo?
«Bisogna avere il coraggio di riequilibrare il sistema di welfare, favorendo gli strumenti alternativi di protezione sociale che il mercato riesce a proporre. A cominciare dalla sanità».
Pensavo che il primo capitolo del welfare, sia pubblico che privato, fosse la previdenza.
«Mefop, la società del Mef che presiedo, redige da una decina d’anni una indagine campionaria presso i lavoratori. Ormai la maggioranza ha capito che la prima frontiera è la salute. Dieci anni fa la prima preoccupazione era la pensione. Oggi forse si è capito che la pensione dipende in gran parte da un regolare percorso nel mercato del lavoro; ci si preoccupa di più delle prestazioni sanitarie, fino alla soglia dell’assistenza, al long term care. La vita che si allunga deve essere assistita, accompagnata. Ma per avere le risorse occorre pensarci per tempo».
Salute e previdenza si incrociano.
«Esattamente. Vediamo che anche i fondi pensione più consistenti, penso a Cometa o a Fonchim, hanno lanciato e promosso dei fondi di sanità integrativa. Anche lo sviluppo del welfare aziendale, oltre ai benefit ludici dovrà sempre più favorire servizi collegati alla salute e all’assistenza dei lavoratori e del loro nucleo familiare».
Più spazio al mercato, dunque alle assicurazioni?
«Sì, ma anche alla bilateralità, alle scelte che nascono dal negoziato tra le parti. La contrattazione è un valore. Resta il fatto che c’è un problema a monte da risolvere: è certo che il nostro è un Paese sotto-assicurato. Lo vediamo anche drammaticamente nei momenti tragici dei terremoti o delle inondazioni. In Giappone l’assicurazione anti-sismica nelle case è obbligatoria. Da noi se ne parla da anni. Siamo un Paese fragile dal punto di vista sismico e idrogeologico. Tutti lo sanno. Ma non si fa nulla per assicurare nemmeno il bene primario della casa. Scontiamo un problema culturale, di scarsa educazione finanziaria. E un Fisco eccessivo. Si devono introdurre incentivi fiscali. La riduzione delle entrate sarebbe ampiamente ripagata da un taglio delle spese. Il perimetro pubblico deve ridursi».
Quella degli incentivi fiscali è la strada anche per dare fiato al lento sviluppo della previdenza complementare?
«Non c’è dubbio. Noi abbiamo ancora un sistema ETT, per chi ama gli acronimi la E sta per esenzione, le T stanno per tassazione. L’esenzione fiscale riguarda solo la raccolta. Si tassa invece sia il rendimento che la prestazione. Nei Paesi dove la previdenza complementare è sviluppata vige un sistema EET. L’esenzione fiscale spetta sia alla raccolta che al rendimento. Si tassa solo (e poco) la prestazione finale».
E per favorire il secondo pilastro, anche se abbiamo capito che si tratta di una tassonomia invecchiata, ci vuole magari l’obbligatorietà?
«A me le cose obbligatorie non piacciono. Ma il sistema di adesione volontario, così come quello contrattuale, non hanno funzionato. Obbligatorio, semi-obbligatorio... non so. Torniamo al tema delle assicurazioni. Come dicevo prima ci sono obblighi che fanno bene, come si vede dalla solidità delle abitazioni in Giappone, figlia della obbligatorietà dell’assicurazione anti-sismica. In Germania l’adesione al secondo pilastro previdenziale è obbligatoria».
Abbiamo dimenticato qualcosa?
«Solo la cosa più importante».
Sarebbe?
«La crescita. Senza crescita economica non c’è welfare. Le risorse, pubbliche e private, si producono con la crescita economica del Paese. E questo vuol dire investimenti. Pubblici anzitutto, naturalmente non in disavanzo. E investimenti privati».
Immagino anche da parte dei fondi pensione, seppure la loro forza di fuoco non superi di molto i 250 miliardi, aggiungendo anche quelli gestiti della Casse. Dei rapporti tra previdenza e finanza lei si è occupato in un libro recente.
«Effettivamente i fondi pensione dovrebbero investire di più nell’economia reale del Paese. Oggi solo l’1% del loro patrimonio è rivolto alle imprese. Per le Casse qualcosa di più: il 3%. Troppo poco in assoluto e a confronto con quello che accade all’estero, dove la quota di investimenti produttivi dei fondi pensione raggiunge e supera anche il 40%. In certi casi, con prudenza e con buoni partner finanziari, si dovrebbe puntare anche alle imprese non quotate, che assicurano migliori performance nei rendimenti, tanto necessari per creare una buona previdenza complementare».
Crescita e investimenti: ecco il mantra. Può funzionare anche per lo sviluppo futuro del welfare?
«Sicuro. Ma per poter investire serve un clima di fiducia che consenta di guardare al futuro con un discreto ottimismo. Investimenti nel mondo dei servizi e della tecnologia, soprattutto. A monte di tutto, se l’Italia non cresce non potrà avere né un welfare pubblico né un welfare privato».
 
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