Valore D: la parità di genere è una questione di sostenibilità del capitale umano

Valore D: la parità di genere è una questione di sostenibilità del capitale umano
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Martedì 22 Novembre 2022, 16:00 - Ultimo aggiornamento: 25 Novembre, 23:00

Valore D è la prima associazione di imprese in Italia che da oltre dieci anni si impegna per l’equilibrio di genere e per una cultura inclusiva nel nostro Paese. Intervista alla Direttrice Generale Barbara Falcomer

È un’azione integrata quella di Valore D, prima associazione di imprese in Italia che conta un totale di più di due milioni di dipendenti e un giro d’affari aggregato di oltre 500 miliardi di euro. Il suo è un impegno continuativo strutturale e territoriale volto a favorire politiche di attivazione e inclusione sociale che osservino il rispetto della parità di genere, la diversità e l’inclusione, fornendo alle imprese strumenti efficaci di confronto interaziendale e con le Istituzioni. Valore D promuove inoltre programmi di educazione e formazione, monitoraggio e analisi che evidenziano come «il 50% delle manager che ha partecipato ai programmi di mentorship di Valore D ha avuto un avanzamento di carriera entro i 18 mesi; l’87% delle aziende associate ha attivato piani di welfare aziendale per il benessere dei collaboratori e dei loro familiari. Il 74%, inoltre, ha riconosciuto il ruolo fondamentale di Valore D nel realizzare, al proprio interno, un piano efficace di inclusione». Con la Direttrice Generale di Valore D Barbara Falcomer, abbiamo parlato dei dati a disposizione dell’associazione, dei progetti educativi promossi e dei cambiamenti sociali in atto.

Come e perché nasce l’associazione e come si inserisce nel suo percorso professionale?

Valore D nasce nel 2009 su iniziativa di dodici donne di importanti aziende con la volontà di favorire la leadership femminile, non associandosi però fra loro ma associando le aziende. Intuizione che contraddistingue il dna di Valore D. Nei primi anni il focus si prefiggeva come obiettivo di dare accesso alle donne ai ruoli apicali nelle organizzazioni, poi dal 2016 in poi, con gli impegni ESG e quelli più ampi dell’Agenda 2030, le aziende hanno iniziato a vedere la presenza delle donne in piani che comprendono anche l’inclusione e la diversità. Per questo oggi Valore D è la prima realtà di imprese che promuove non solo l’equilibrio di genere ma anche la dimensione inclusiva per favorire la crescita delle aziende e quella del paese. Questa è un’azione di natura sociale, innanzitutto, piuttosto che di governance: grazie alle best practice scelte da imprenditori e imprenditrici, dal personale dipendente e anche dai clienti, quello che stiamo pianificando quotidianamente è un vero e proprio cambiamento culturale. Ci occupiamo quindi della sostenibilità del capitale umano, che possa fronteggiare problemi relativi alla disoccupazione femminile, alla mancanza di competenze, alla fuga di cervelli…Il rispetto della diversità tuttavia non è solo un tema etico, è inerente al business in quanto vi è ormai una corposa letteratura intorno all’importanza dell’eterogeneità dei punti di vista, della formazione, dell’estrazione sociale. Non è un caso, infatti, che le aziende più performanti abbiano al loro interno alti livelli di diversità.

Con quali soggetti vi interfacciate a livello territoriale e in che modo lavorate?

Ci interfacciamo primariamente con le aziende, le istituzioni, le associazioni datoriali e con altri enti che lavorano come noi per il progresso culturale e sociale. Organizziamo per i nostri associati, 320 in tutto ad oggi, percorsi di formazione relativi a tutti i livelli lavorando sulla cultura delle persone. Siamo anche un polo di ricerca, in collaborazione congiunta con le università, le cui analisi costituiscono da un lato dossier di approfondimento, dall’altro diventano fonte di identificazione di nuovi strumenti operativi che le aziende possono utilizzare per migliorare la loro posizione. Puntiamo molto sulla comunicazione: ne abbiamo una interna specifica per gli associati finalizzata a stabilire delle connessioni tra di loro perché le realtà possano imparare le une dalle altre visto che possiedono livelli e obiettivi diversificati. Basti pensare allo smart working, noi siamo già dieci anni che applichiamo questa modalità, la quale in alcuni casi specifici facilita l’equilibrio vita lavoro di molte donne. Vi è poi una comunicazione più generalizzata e improntata su delle campagne di sensibilizzazione, ne abbiamo una attualmente in corso relativa alle materie STEM e a come queste non vengano scelte dalle ragazze nei percorsi universitari (#ValoreD4STEM – ValoreD for Stem – lanciata a febbraio 2022 con l’obiettivo di accrescere la partecipazione delle donne al mondo scientifico ndr). La comunicazione istituzionale è altresì determinante: ci interfacciamo coi vari ministeri, delle parità sociali, delle infrastrutture e del lavoro. Proprio lo scorso anno, durante il G20, abbiamo guidato un tavolo chiamato G20 Empower, occasione dalla quale sono scaturite relazioni con enti come l’OCSE ad esempio, coi quali siamo entrati in contatto.

I progetti di innovazione sociale che si allargano oltre le aziende e ci portano nelle scuole sono quelli a cui teniamo di più poiché propedeutici all’educazione per scardinare alcuni stereotipi, i quali nascono nelle famiglie, liberando la mente dei ragazzi e delle ragazze da modelli precostituiti.

In base ai progetti attivati quali sono gli stereotipi più comuni da decostruire, in quali settori sono più diffusi, e quali fasce d’età interessano?

Gli stereotipi sono purtroppo diffusi in modo molto trasversale, non solo per età ma anche rispetto ai livelli di scolarizzazione. Gli stereotipi sono umani, sono scorciatoie che ci fanno incasellare le persone per controllare e definire il mondo circostante. Sono diversi a seconda dei paesi, se veniamo al caso italiano, ve ne è uno molto invalidante e relativo alla concezione che assegna alla donna il ruolo di angelo del focolare domestico. Ovviamente ci sono gradazioni diverse ma questo è il macro limite che osserviamo anche nelle scuole primarie: papà lavora, mamma sta a casa. La situazione, però, sta cambiando sensibilmente negli ultimi anni. Durante un progetto fatto nel 2018 (Report Sognando il futuro e il lavoro: opinioni e attitudini dei giovani studenti italiani condotto insieme a Ipsos ndr) abbiamo individuato tra le bambine il desiderio di cimentarsi in mestieri relativi alla cura: infermiera, insegnante, cuoca. In un’ultima campagna invece, relativa allo stesso progetto, sia i bambini che le bambine hanno messo al primo posto la professione del medico – in questo la pandemia ha avvicinato maggiormente questa figura, diventata eroica per molti e molte di loro – mentre al quinto posto le ragazze hanno indicato l’ingegnera e al sesto posto la soldatessa, professioni che non comparivano affatto nei precedenti sondaggi.

Anche gli uomini sono soggetti a pregiudizi e stereotipi?

La bibliografia finora raccolta sul tema ci dimostra quanto gli stereotipi siano diffusi in egual misura tra donne e uomini, e determinano delle scelte e azioni che compromettono il merito sul posto di lavoro, e complicano anche la vita familiare. Gli uomini, soprattutto gli over 50, pensano che una donna non possa ricoprire, ad esempio, il ruolo di direttore vendite perché non può allontanarsi spesso da casa ed essere a disposizione per le trasferte; le donne, invece, hanno un rapporto difficile con il potere e ritengono sia una questione da uomini. Ci sono molte di loro che, nonostante le competenze, non vogliono raggiungere posizioni apicali. Rispetto a questa incorporazione dei modelli, la mission di Valore D non è quella di cancellare i pregiudizi ma di allenare le persone a riconoscerli, a scardinare le griglie di pensiero per valutare serenamente le decisioni.

Quale educazione sarebbe necessaria fin dalle scuole e anche all’interno delle aziende per sensibilizzare le persone?

Nelle scuole preferiamo far raccontare le esperienze a chi le ha vissute. Con il progetto Inspiring Girls, ad esempio, abbiamo portato in oltre 550 istituti più di 1000 role model che hanno condiviso la propria storia personale e professionale dando ai ragazzi, soprattutto alle ragazze, l’ispirazione, la motivazione e l’esempio di cui hanno bisogno per realizzare a pieno il proprio potenziale (Inspiring Girls e la campagna #nonèdamaschio è un progetto di innovazione sociale promosso in partnership con Eni, Intesa Sanpaolo e Snam ndr). È il caso dell’astronauta Samantha Cristoforetti o anche del Primo Ministro Giorgia Meloni e Angela Merkel che hanno permesso a molte ragazze di credere di poter svolgere queste professioni. Non lavoriamo solo coi ragazzi e le ragazze ma anche con gli insegnanti e quindi le famiglie. Per quanto riguarda invece le organizzazioni lavorative, facciamo dialogare insieme realtà eterogenee affinché la contaminazione delle competenze possa accrescere il valore delle aziende e del capitale umano, dare voce alle persone aumenta inoltre il senso di appartenenza all’impresa.

Lucia Medri

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