Smart working ai tempi del Covid-19. Tra utopie e realtà

Smart working ai tempi del Covid-19. Tra utopie e realtà
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Martedì 7 Luglio 2020, 12:00 - Ultimo aggiornamento: 14 Luglio, 19:00

Luca Pesenti e Giovanni Scansani (*) con questo intervento proseguono l’analisi sull’evoluzione dello smart working. Quello che doveva essere. E quello che sta diventando. La seconda “puntata”

La storia dello smart working (SW) nel nostro Paese è sotto molti aspetti esemplare. L’impianto culturale “standard” dell’impresa italiana, in particolare delle PMI, si presenta in forma rigorosamente “solida”: il luogo di lavoro è lo spazio privilegiato attraverso il quale è possibile controllare lo svolgimento delle attività per le quali i dipendenti sono pagati. Con una tendenza insana a sviluppare logiche di valutazione informale della produttività in ragione delle ore di lavoro passate in ufficio.

Dentro questo scenario, culturale e organizzativo, i casi di lavoro realmente “agile” (sviluppati principalmente nell’ambito di aziende multinazionali) sono stati relativamente pochi, pur essendo nel frattempo entrata in vigore una specifica normativa (la legge 81/2017) che ha appunto introdotto il “lavoro agile” (smart working è una invenzione lessicale che non trova riscontro in letteratura) come possibilità individuale regolabile (altra novità importante) attraverso specifici accordi tra l’azienda e il lavoratore. L’Osservatorio del Politecnico di Milano stimava nel 2019 l’esistenza di circa 570mila lavoratori “agili” in Italia: un numero sideralmente inferiore rispetto ai milioni registrati in Paesi più attrezzati come, ad esempio, l’Olanda.

Negli anni immediatamente precedenti l’arrivo del Covid-19 alla diffusione delle prassi di SW (pur non associate a quel necessario cambio di paradigma che dovrebbe sostenerle) iniziavano a dar manforte anche una serie di altre aziende, spesso motivate da finalità più ascrivibili al marketing che ad una reale volontà di innovare la loro tradizionale organizzazione del lavoro (che tale dunque rimaneva, con “uffici-fabbrica” e procedure replicate a domicilio, con regole ferree di collegamento costante durante la giornata lavorativa, obbligo di osservare orari e di partecipare, sia pure online, a meeting e riunioni varie: insomma, il fordismo in casa propria od ovunque si fosse).

Smart Working e Welfare Aziendale: percorsi paralleli?

Parallelamente a queste spinte crescevano anche quelle che diffondevano le prassi del Welfare Aziendale (anch’esso in parte mitizzato, talvolta mal interpretato o ridotto nella sua reale portata) nel cui ambito veniva spesso fatto ricadere anche lo stesso SW inteso (anche in questo caso in modo riduttivo) come misura di conciliazione vita-lavoro (semmai questa sarà un suo effetto, ma non la causa, né la motivazione per cui lo si adotta).

In quel periodo, tanto il Welfare Aziendale che lo SW ricevevano una serie di endorsement di tipo normativo che ne favorivano lo sviluppo. Anche se è sempre necessario ricordare che se il primo può essere fatto risalire concettualmente ed operativamente alle esperienze sorte con la prima industrializzazione italiana tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, il secondo è invece molto più recente ed ha una matrice statunitense. È infatti negli USA che viene inventato il suo antecedente logico (il telelavoro), così come sempre dagli Stati Uniti arriva anche un’altra “invenzione” diventata molto glamour anche da noi, ovvero il Chief Happiness Officer, un manager chiamato ad un compito così complicato da sfidare l’utopia: fare della felicità individuale di ciascun collega una “leva” di people management complessiva per l’azienda migliorandone i risultati.

Questa diversa collocazione, culturale e temporale, ci dice che mentre il primo “istituto” ha solide radici e non deve temere eventuali sbavature nella sua interpretazione, il secondo deve ancora farsi le ossa e necessita invece di una grande attenzione perché si sviluppi in modo adeguato in un contesto (come quello europeo e italiano in particolare) segnato da culture organizzative e di people strategy profondamente differenti rispetto a quelle d’oltreoceano.

Gli sforzi profusi per diffondere lo SW arrivano a dare i primi frutti proprio negli ultimi anni. Tanto da rendere possibile anche l’avvio di una quantificazione del fenomeno, grazie allo sforzo scientifico dell’autorevole Osservatorio del Politecnico di Milano. Si tratta evidentemente di numeri tutto sommato ancora molto piccoli, e soprattutto molto lontani dalle medie registrate nel periodo in Europa, ma nondimeno incoraggianti: nel corso del 2019 lo avrebbero praticato poco più di 570mila lavoratori e lavoratrici. Certo, si tratta di una quota molto ridotta degli oltre 18 milioni di lavoratori dipendenti attivi nel nostro Paese, in evidente contrasto (per quanto riguarda il settore pubblico) con disposizioni che già prima dell’emergenza pandemica obbligavano (sulla carta) le PA ad organizzare in SW il lavoro del 10% dei loro organici.

Intendiamoci: una rivoluzione ha i suoi tempi e s’inizia sempre grazie all’azione di quelle che il grande storico inglese Arnold Toynbee definiva “minoranze creative”. Ma questi dati ci dicono che quella in atto fino al Covid-19 non era ancora neppure l’avanguardia di una vera rivoluzione del lavoro, del tutto imparagonabile con il 40% di lavoratori che potevano disporre di modalità di telework in Olanda o del 35% registrato in Svezia. Un inizio promettente però, sì.

Utopie e (necessario) realismo

C’è dunque una seppur piccola e breve storia dello SW anche nel nostro Paese. Una storia che, come il raggio di luce che si immerge nel prisma, passando attraverso il lungo lockdown cui 8 milioni di lavoratori e lavoratrici sono stati costretti, sembra oggi essere esploso in una moltitudine di colori. Perdendo la sua connotazione di mero strumento a complemento di una trasformazione della cultura organizzativa e di gestione dell’impresa, per assumerne una differente, utopica e (a nostro avviso) pericolosamente irrealistica: quella dell’introduzione a una nuova “civiltà del lavoro” come liberazione del lavoro dai limiti di tempo e di luogo imposti (come già aveva colto la grande sociologia storica di Max Weber) dallo sviluppo razionalizzante della modernità e della società industriale.

Sappiamo di usare termini “pesanti”, ma ci pare indispensabile farlo soprattutto in questa fase, nella quale dentro la logica dell’emergenza si può rischiare di radicalizzare dinamiche che invece hanno bisogno di essere maneggiate con la giusta cautela. Sostenere – come pure è stato fatto – che sarebbe massimamente desiderabile poter lavorare in SW come regola, ossia potenzialmente “sempre” e “per sempre”, rendendo quindi di fatto eccezionale o addirittura superflua la presenza della persona in ufficio, significa a nostro avviso entrare nei territori delle utopie. Con tutto il fascino, ma anche con tutti i rischi connessi alla tentazione di spostare anche il lavoro all’interno della lettura post-umana di fenomeni sociali che si fanno obbedienti al sistema sperimentale della scienza e della tecnica, senza adeguate premesse di tipo filosofico, sociologico o (addirittura) teologico. Si tratta della stessa utopia che è stata salutata da qualcuno come l’avvento di una “nuova era” quando qualche settimana fa colossi come Disney e Twitter hanno annunciato che presto i loro collaboratori sarebbero stati collocati in SW in modo permanente. Quasi sulla stessa scia, Facebook e la Apple prevedono che la maggior parte dei dipendenti, una volta terminata l’emergenza, non rientreranno in ufficio.

Di fronte a queste utopie della totale “remotizzazione” del lavoro (e dunque della riduzione del classico ufficio a una sorta di reperto archeologico), crediamo occorra un soprassalto di realismo. Necessario per salvaguardare ciò che di propriamente “umano” c’è nel lavoro, ma anche per salvare lo stesso SW dalle sue pericolose radicalizzazioni. Come abbiamo sostenuto nel nostro recente libro “Welfare Aziendale: e adesso?” (un e-book che potrete scaricare gratuitamente dal sito www.vitaepensiero.it) nel quale il primo capitolo è stato dedicato proprio al tema dello SW durante la pandemia, la temporanea assenza da uffici, fabbriche, studi, scuole, università, officine, insomma dai luoghi in cui ogni giorno milioni di persone si recano per lavorare, ci ha dato un’utile lezione culturale, forse addirittura antropologica. Abbiamo scoperto che ci mancano i colleghi dell’ufficio, come ai ragazzi e ancora di più ai bambini mancano i compagni di banco o di corso. Certo, ci sono internet e la tecnologia a darci una mano, ma non è facile stare da soli, per settimane, davanti ad uno schermo (molto più che in precedenza, in ufficio) e continuare a sentirsi parte di un team come quando le relazioni con gli altri si vivevano offline, come quando, oltre all’online, c’era la fisicità dei luoghi, degli sguardi e delle parole dette e non trasformate in bit.

Le avanguardie del post-umano applicato al lavoro accusano ogni riflessione problematizzante in argomento di essere, sic et simpliciter, reazionaria, passatista: insomma indifendibile. La nostra idea è che invece non si diventi certo retrogradi difendendo l’umano che c’è nel lavoro e ciò semplicemente perché il lavoro (e il modo con cui culturalmente lo concepiamo) contribuisce massimamente a dare realizzazione e significato alla nostra umanità. La pandemia e il sedicente SW emergenziale (che SW non è) ha, probabilmente, svelato il lato oscuro dell’immateriale: lavorare da casa, nelle attuali condizioni, non è la stessa cosa e non soltanto perché non è stata una nostra scelta, ma un’inevitabile costrizione. La verità è che abbiamo scoperto, stando a casa lavorando ogni giorno da quel luogo (invece che viverlo solo per godere dei nostri affetti e del nostro tempo libero), che prima di amare gli spazi di fondamentale libertà dal lavoro, amiamo proprio il lavoro e lo amiamo nel luogo dove il lavoro si fa normalmente: negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole, in ogni posto dove si stia in relazione con gli altri e per gli altri. Lavorare, insomma, non è semplicemente “produrre”: è stare immersi nell’ambiente che il lavoro genera e riproduce. Questo è il “bene comune” che ci è stato rapinato dal “male comune” del virus.

Lavoro da casa: quel che il lockdown non ci può insegnare

Ed è male fare del virus un alleato per sostenere che proprio la sua comparsa (che è una tragedia planetaria) ci avrebbe finalmente sospinto, volenti o nolenti, dentro una nuova, utopistica condizione, per organizzare la nostra vita e il nostro lavoro. A smentire simili assunti ci hanno pensato alcune recenti ricerche come, ad esempio, quella del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica dalla quale emerge un vissuto molto problematico da parte di chi (lavoratore dipendente) ha dovuto da un giorno all’altro trasferire il proprio lavoro in casa: bassa soddisfazione e bassa produttività self reported sono segnali rilevanti, certo dettati da una condizione senza scampo, ma altrettanto certamente capaci di metterci in guardia dal rischio di pensare che quel che siamo stati in grado di fare in emergenza possa diventare regola nel new normal che stiamo costruendo.

Sono cose che potevamo immaginare anche senza studiare le ricerche, in fondo. Le sapevamo già, perché sono emerse parlandone con i colleghi di lavoro o con i vicini di casa (ovviamente su Zoom o con Webex). Il drammatico lockdown e il “tutti a casa” generalizzato non ha giovato al senso di libertà e di serenità che il vero SW dovrebbe generare, come quando lo si vive stando in un contesto aziendale basato su logiche partecipative e realmente responsabilizzanti.

C’è peraltro anche qualcosa di fastidiosamente snobistico nella continua difesa dello SW a tutti i costi e costi quel che costi. Si prova la sensazione che si dimentichino, ad esempio, i lavoratori e le lavoratrici di quelle imprese ritenute “essenziali” che hanno continuato a lavorare affrontando un rischio in più – e per di più – enorme: il contagio. Molti di questi sono stati giudicati “eroi”; non sono solo i medici e gli infermieri, ma anche i lavoratori e le lavoratrici della GDO, delle filiere dell’alimentare e della logistica: durante il lockdown ci siamo accorti delle cassiere e dei fattorini, tutta gente che, detto per inciso, in SW non ci andrà mai. Così come si dimenticano tutti coloro i quali non hanno condizioni domestiche adeguate, non sono dotati di strumenti, tecnologie, contesti famigliari o anche abitazioni capaci di corrispondere adeguatamente all’utopia di un mondo senza uffici (o in cui l’ufficio rientra negli strumenti “di risulta” di un lavoro svolto massimamente altrove). Si dirà: ci sono i coworking. Possiamo rispondere che anche questa soluzione, in disparte altre valutazioni, sul piano anche solo economico non è alla portata di tutti (specie di coloro che un ufficio comunque ce l’avrebbero e che a quel punto tanto vale continuino a frequentare).

Ma soprattutto c’è qualcosa che, nuovamente, rischia di sconfinare nel mitologico e che pure viene comunicata come una verità granitica. Due esempi. Si dice: durante il lockdown, stando in SW si è lavorato di più. Se così fosse, a parità di salario, non sarebbe certo una bella notizia! Premesso che semmai occorrerebbe lavorare non di più, ma meglio, quello che è sin qui accaduto è che il fatto di aver lavorato di più va associato al fatto di aver lavorato male, ossia in condizioni non certamente ideali. Altro assunto: la produttività è cresciuta. È un mantra fondato in prevalenza su auto-dichiarazioni del management intervistato in specifiche survey senza alcuna riprova derivante da una qualche misurazione quantitativa, se si eccettuano quelle che conteggiano le videocall e il numero di messaggi WhatsApp scambiati tra colleghi: un po’ poco per dirci qualcosa di serio in proposito. Sarebbe interessante dare una risposta a queste semplici domande: in che modo è aumentata la produttività di una figura impiegatizia, poniamo addetta alla contabilità o inquadrata nell’ufficio dedicato all’amministrazione del personale? In che modo lo SW (emergenziale) ha accresciuto la produttività del personale commerciale? A queste domande possono aggiungersi (sul fronte del lavoro pubblico) le ormai celebri sette domande proposte dal Prof. Ichino alla ministra della PA Fabiana Dadone, secondo la quale, come noto, la PA durante il lockdown avrebbe funzionato in tutti i reparti come e meglio di prima.

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*Luca Pesenti, professore associato nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

**Giovanni Scansani, co-founder Valore Welfare Srl

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