Qual è la qualità del lavoro in Italia? Dialogo con Pietro Novelli (Oliver James)

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Martedì 23 Maggio 2023, 11:00 - Ultimo aggiornamento: 6 Giugno, 06:00

Parliamo di occupazione attraverso un’analisi qualitativa del lavoro in Italia insieme a Pietro Novelli, classe 1990, Country Manager dell’agenzia di recruitment Oliver James Italia e tra i 40 under 40 di Fortune Italia

Secondo gli ultimi dati provvisori Istat pubblicati qualche giorno fa, l’occupazione nel mese di marzo cresce (+0,1%, pari a +22mila unità) per uomini e donne, dipendenti e per tutte le classi d’età tranne quella dei 25-34enni, per cui risulta in calo. Il tasso di occupazione è stabile al 60,9%. Dati quantitativi che dovremmo però associare a un’analisi qualitativa: quanto, ma soprattutto, come si lavora in Italia?

L’attuale fotografia del mercato del lavoro rileva un aumento dei contratti flessibili, potenziato dall’ultimo Decreto Lavoro per il quale i contratti a termine da 12 mesi vengono ora estesi a 24 mesi (la durata del contratto a termine viene prolungata solo con il consenso del lavoratore e qualora la durata iniziale sia inferiore a 24 mesi, per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi indipendentemente dal numero dei contratti ndr). La flessibilità rientra nelle logiche economiche che richiedono una continua trasformazione degli strumenti di contrattazione e, nello stesso tempo, viene incontro alle esigenze delle nuove generazioni di lavorare per progettualità piuttosto che nella stessa azienda per tutta la propria vita professionale. Di per sé non è quindi una misura sbagliata ma l’intervento inserito nel Decreto non indirizza in maniera strutturale alcuni requisiti fondamentali per il welfare come l’accesso al credito, indispensabile per permettere alle fasce più giovani di crearsi una famiglia e una propria autonomia per l’acquisto di un mutuo. Altro tema che non favorisce l’occupabilità è la mancanza di competenze, che schiaccia le opportunità di lavoro su dinamiche di basso valore aggiunto e rende complessa l’evoluzione del tessuto economico delle nostre imprese rispetto a dei contesti innovativi e di trasformazione. Il nostro è un mercato costituito da piccole e medie realtà che faticano a trovare profili con alte competenze, dato conseguente a un sistema accademico non aggiornato, alla scarsa attuazione di politiche attive del lavoro su nuovi settori, e all’incapacità di intercettare professionisti stranieri, a causa della lingua che limita le candidature.

In un recente articolo apparso sul Corriere, si evidenzia un fattore strutturale determinante: a prescindere dal tasso di occupazione, il mercato del lavoro italiano, rispetto a quello europeo, sembrerebbe fermo. Secondo Eurostat infatti, l’Italia potrebbe incrementare le forze di lavoro di quasi il 12% perché nel nostro paese lavora il 39% della popolazione mentre in Francia e in tutta Europa quasi il 55%. Come spiega questa evidenza e da cosa dipende questa difficoltà di accesso?

Durante il Governo Draghi sono stato inserito come Consigliere dell’Amministrazione di ANPAL Servizi per le politiche attive del lavoro e ho potuto toccare con mano le condizioni della struttura organizzativa che dovrebbe occuparsi delle politiche per il lavoro, ognuna diversa nelle 2o regioni e difficile da uniformare e rendere capillare.

Così come è dunque complicato l’accesso ai centri per l’impiego, lo è anche l’accesso alla formazione. L’aspetto propositivo però, è la nascita di realtà private che si stanno verticalizzando nella formazione professionalizzante.

Per spiegare questa difficoltà d’accesso sarebbe opportuno puntare l’attenzione su due categorie, quelle maggiormente svantaggiate, ovvero i giovani Neet e le donne.

Quindi in che modalità sta crescendo l’occupazione per le donne, come segnalato dai dati Istat?

Facciamo un passo indietro, la pandemia ha accentuato l’esclusione lavorativa delle donne e ha esacerbato ulteriormente le disparità di genere sul mercato del lavoro nazionale. Il tasso di occupazione femminile si è mantenuto al di sotto del 50% (ad eccezione del 2019 e del 2021) da oltre trent’anni. Un tasso fermo al 33% tra le donne giovani e al Mezzogiorno. Pure in un contesto di bassa natalità e invecchiamento progressivo della popolazione, ogni anno oltre una donna su 6 lascia il lavoro a seguito della maternità, mentre 35mila donne con figli sotto i tre anni di età hanno rassegnato dimissioni volontarie nel 2019. Per il sostegno alle carriere femminili, gli asili nido dovrebbero essere a tutti gli effetti degli abilitatori e facilitatori tanto per la gestione del lavoro di cura nei confronti dei bambini che degli anziani.

A proposito dei NEET già citati, il numero dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano non sembra decrescere. Quali sono i fattori di questo stallo?

I NEET in Italia nella fascia d’età 15-34 anni sono  infatti complessivamente più di 3 milioni, con una prevalenza femminile pari a 1,7 milioni. Pur essendo molteplici i fattori che possono determinare la permanenza dei giovani nella condizione di NEET, quelli che vengono indicati come i principali fattori di rischio sono molteplici: avere un livello basso di rendimento scolastico, vivere in una famiglia con basso reddito, provenire da una famiglia in cui un genitore ha sperimentato periodi di disoccupazione, crescere con un solo genitore, essere nato in un Paese fuori dell’UE, vivere in una zona rurale oppure avere una disabilità. Nel Decreto Lavoro si evidenzia però una facilitazione per l’imprese, per la quale viene pagato dallo Stato la percentuale dell’assunzione per le fasce NEET e che potrebbe intercettare e soddisfare questa domanda.

Lucia Medri

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