Il capitalismo consapevole aumenta il welfare e la produttività

Il capitalismo consapevole aumenta il welfare e la produttività
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Giovedì 28 Ottobre 2021, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 9 Novembre, 11:00

I corsi tenuti da Simone Rosati determinano un nuovo atteggiamento mentale che genera profitto. Lo abbiamo intervistato per conoscere come le aziende possono avvicinarsi ad un capitalismo più consapevole che possa migliorare la produttività, favorendo il benessere delle persone e del pianeta.

Esperto internazionale di formazione, motivatore, coach, trainer di intelligenza emotiva, nella sua lunga carriera di formatore presso istituti di credito, multinazionali della moda, di information technology e molte altre aziende dagli Stati Uniti, Simone Rosati ha avuto la possibilità di studiare la scienza dei comportamenti umani e comprendere quegli aspetti che determinano benessere e che, tradotti in ambito aziendale, generano profitto. Con lui, abbiamo analizzato alcuni dati derivanti dalla sua esperienza e cercato di individuare futuri trend di aggiornamento.

Dal suo punto di vista e in base all’esperienza accumulata in questi anni, come è cambiato il nostro modo di rapportarci alla sfera lavorativa?

Questo che stiamo vivendo è un periodo ultra sfidante e mai come ora ha senso associare alla produttività, il bisogno di felicità. Da una decina di anni mi occupo di questi aspetti relativi all’ambito del lavoro – tra i miei ruoli vi è è ad esempio quello di keynote speaker per grandi aziende – soffermandomi principalmente sulla filosofia del Conscious Capitalism secondo la quale è cosciente e importante condurre le aziende non solo verso il profitto, ma anche e soprattutto verso le persone, il pianeta e il proposito. Per rispondere alla domanda riguardante il modo di rapportarci alla sfera lavorativa è necessario fare una considerazione di tipo demografico relativa a un modo di intendere il lavoro, e la vita, a seconda delle generazioni: i baby boomer (lavoro al primo posto e carriera all’interno di una stessa azienda), i ricostruttori (fondamentale la proprietà della casa e un lavoro per la vita), la generazione x (worklife balance e professionismo), millennials (libertà e flessibilità, lavorare con un’azienda e non per), generazione zeta (multitasking). Questi sono cambiamenti epocali, approcci diversi, e generazionali, rispetto al lavoro; il lavoro non è più sostentamento e retromissione e passività ma attenzione alle persone e all’ambiente, il confronto è un faccia a faccia tra aziende e lavoratori. Molte aziende al momento della selezione del personale stipulano infatti un vero e proprio patto di contributo alla società, un win win contrattuale: attraverso il tuo lavoro che contributo vuoi dare alla società? In questo anche la scienza si sta mobilitando, si parla infatti di psicologia positiva, una fase successiva della psicopatologia. Qualcosa si sta smuovendo, la scienza stessa ci dice che non dobbiamo più andare a lavoro “chiudendoci il naso”.

Cosa manca ancora? La nostra mentalità è sufficientemente pronta al cambiamento?

C’è una parte del nostro cervello che sovrastima le sfide e sottostima le nostre capacità. Direi che è ora di finirla. Rispetto a questa inversione di tendenza io vedo un futuro roseo. Ma lo vedo anche nelle giovani generazioni, mi impegno infatti nella formazione allenando ragazze e ragazzi di 18 e 19 anni nei tornei di dibattiti democratici. E sono ragazze e ragazzi fantastici, migliori della nostra idea che abbiamo di loro. Il nostro cervello è plastico, significa che attraverso l’apprendimento possiamo modulare i nostri comportamenti. Manca qualcosa certamente, la mentalità, le infrastrutture anche, e serve sicuramente un approccio integrato che si basi su energia, salute, dialettica. Io punto sull’educazione: bisogna richiamare un ritorno alle arti, tornare ad apprendere in modo giocoso, aumentare la diversity e l’inclusion, comprendere noi stessi per imparare a comprendere gli altri. Tutto ciò facilita la gestione dello stress, migliora la capacità di attenzione, previene il disturbo dell’attenzione cronica.

In che modo la sua consulenza può entrare a far parte di un piano di welfare all’interno di un’azienda?

Il Welfare State è stato il tentativo di supportare sacche di povertà e momenti di difficoltà; contrariamente a ciò che si pensa, il mondo migliora anche rispetto alla povertà assoluta. In relazione al mio corso Personal Energy ho avuto la possibilità di individuare una casistica, dalla quale è emerso che i dipendenti chiedono la soddisfazione di bisogni raggruppabili in quattro categorie: bisogni fisici (orario di lavoro, ambiente, sedute, aria), emotivi (senso di appartenenza e fiducia), mentali (creatività e spazio di autodeterminazione), spirituali (che il lavoro abbia senso per la società). Se si soddisfano questi bisogni aumenta la produttività. E sono stato testimone, nel mio percorso, di come questi servizi – penso anche al coaching 1 a 1 specifico per un dialogo diretto con il dipendente – abbiano portato alle aziende con cui sono entrato in contatto, miglioramenti a 360°.

Può fornirci qualche numero riguardante i risultati ottenuti misurabili sia qualitativamente che quantitativamente?

Il mio lavoro è una scienza, è importante passi questo messaggio, e in virtù di ciò devo costantemente aggiornarmi. È un caso studio per esempio che nel 1999 sono stati fatti dei percorsi di intelligenza emotiva e sull’ascolto empatico a dei venditori comportando in sei mesi una crescita del 139% sulle vendite. Nell’ambito del life coaching – CBS ha pubblicato recentemente una ricerca – è stimato un ritorno del 300%; nell’ambito professionale, il Manchester Consulting Group ha comunicato una crescita del 600%. Nel 2019 ho promosso un corso supportato da una una rete di caf e patronati e servizi di associazionismo e, con solo due giorni di formazione, applicando una metodologia di forecasting (previsione dei trend), dopo sei mesi è stata evidenziata più del 77% della crescita.

Quali sono le maggiori differenze, sia in termini positivi che negativi, tra il nostro paese e la dimensione internazionale?

Ho avuto la fortuna di lavorare dal 2012 per l’ONU e H&M, esperienze che mi hanno portato in giro per il mondo imparando il rispetto delle differenze e colmando i miei bias culturali. Esiste uno studio, il Globe Project, che ha analizzato tutte le culture facendo emergere di queste dei tratti specifici: in Italia siamo poco lungimiranti, individualisti, maschilisti, diversi dalle società del nordeuropa che sono ad esempio molto più femminili e open minded. In Italia abbiamo l’ossessione nella gestione del tempo, in Cina sentono il bisogno invece di competenze interpersonali…I tratti culturali possono creare un vantaggio oppure no per questo è importante sviluppare delle competenze nell’analisi e conoscenza dei comportamenti per migliorare le relazioni fuori e nel lavoro, e accrescere il welfare prima personale e poi aziendale.

Lucia Medri

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