La riforma fiscale, sarà corsa a ostacoli per l'Irpef a 3 aliquote

La riforma fiscale, sarà corsa a ostacoli per l'Irpef a 3 aliquote
di Andrea Bassi e Luca Cifoni
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Venerdì 24 Dicembre 2021, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 16:34

Un futuro a tre aliquote per l’Irpef, dopo che già la legge di Bilancio ne ha ridotto il numero da cinque a quattro.

Poi il definitivo superamento dell’Irap pagato da imprese e lavoratori autonomi. Insieme a una razionalizzazione dell’Iva, con possibile redistribuzione di beni e servizi sui vari livelli dell’imposta. Anche se di fisco si è discusso moltissimo nelle ultime settimane del 2021, dovrebbe essere il prossimo anno quello decisivo per la riforma complessiva del sistema attesa ormai da mezzo secolo. La legge delega presentata dal governo ricalca per molti aspetti l’impostazione voluta dalle commissioni parlamentari Finanze di Camera e Senato nella loro indagine. I capitoli sono molti, compreso quello contestato che riguarda il catasto: la revisione delle rendite non avrà un immediato utilizzo in chiave tributaria, ma dal 2026 l’esecutivo che ci sarà potrà utilizzare la “mappa” degli immobili per ridisegnare il prelievo. Tutto da verificare resta l’impatto finanziario della riforma, dopo il primo stanziamento in legge di Bilancio che vale 8 miliardi: le risorse per l’effettiva riduzione delle imposte dovranno essere sostanzialmente trovate all’interno dello stesso sistema fiscale, salvo quelle aggiuntive eventualmente ricavate dal contrasto all’evasione. È prevista una specifica procedura di salvaguardia dell’equilibrio finanziario, per cui i provvedimenti che comportano minori entrate potranno arrivare solo dopo quelli che al contrario incrementano il gettito.

LA SCELTA IN MANOVRA

 Per quanto riguarda l’Irpef, la scelta fatta in manovra condiziona anche i passi successivi: è stato ormai archiviato il modello tedesco con aliquota continua e in un certo senso personalizzata, che pure aveva esercitato un suo fascino nei mesi scorsi su politici e tecnici. Le indicazioni di fondo restano quelle enunciate nella delega: ridurre le aliquote medie effettive in modo da favorire la partecipazione al lavoro, in particolare da parte di giovani e “secondi percettori di reddito” (normalmente le donne) ma anche contenere le aliquote marginali effettive, ovvero il prelievo aggiuntivo che scatta quando si ha un incremento di reddito, visto che l’imposta è progressiva. Le aliquote uscite dalla legge di Bilancio riguardano lo scaglione di reddito che va da zero a 15 mila euro (tassato al 23 per cento), quello fino a 28 mila (25 per cento) quello fino a 50 mila euro (35 per cento) e infine lo scaglione oltre i 50 mila euro sul quale il prelievo è del 43 per cento. Dunque nella fase successiva il secondo e il terzo scaglione dovrebbero essere uniti. L’accordo di maggioranza prevede già il punto di caduta: prima aliquota al 23 per cento, seconda aliquota al 33 per cento e terza aliquota al 43 per cento. Qualche correzione ancora potrebbe invece esserci sugli scaglioni. Al netto della terza aliquota, quella per i redditi a partire da 50 mila euro del 43 per cento, il punto di caduta è molto simile a quello della delega fiscale del secondo governo Berlusconi. Allora furono previste soltanto due aliquote: 23 per cento e 33 per cento. Si sa come finì quella volta: il governo non riuscì ad adottare i decreti attuativi per mancanza di risorse e la delega decadde. Cosa accadrà questa volta? Il tempo è davvero poco. La legislatura scade nel 2023. Insomma, la delega deve essere attuata in poco più di un anno. Operazione difficilissima, visto il complicato iter di ogni singolo decreto legislativo. Ma questo non significa che il destino della riforma fiscale è segnato. Luigi Marattin, presidente della Commissione finanze della Camera, è convinto che alcuni risultati si possano portare a casa. «Dobbiamo trovare», aveva spiegato in un’intervista al Sole24Ore, «un equilibrio tra la necessità di non comprimere i tempi della discussione – cruciale in questa fase – e quella di non affossare la delega, cosa che avverrebbe se non ci fosse il tempo, entro la legislatura, per completare il complesso iter dei Dlgs».

Insomma, selezionare i temi. E quello del passaggio da quattro a tre aliquote è considerato “prioritario”.

UN PASSAGGIO COSTOSO

 Va anche detto che si tratta di uno dei passaggi più “costosi” previsti dalla delega. Va dunque finanziato. Serviranno, secondo le stime, altri 4-5 miliardi di euro. Da prendere dove, se la delega dice a chiare lettere che gli interventi devono trovare copertura per poter essere attuati? L’idea, abbozzata al tavolo della trattativa tra i partiti che compongono la maggioranza di governo, è quella di utilizzare gli spazi di manovra che la maggiore crescita economica del Paese rispetto alle stime, sta aprendo. È più di un’idea, è un progetto che dovrebbe concretizzarsi con l’approvazione ad aprile del prossimo Documento di economia e finanza. La maggior crescita e il minore deficit daranno al governo Draghi un margine di manovra di diversi miliardi che potrebbe essere speso per il secondo modulo della riforma fiscale. Il piano, certo, è questo. Ma da qui ad aprile le incognite non mancano. E soprattutto non manca la concorrenza di altre necessità impellenti che richiedono consistenti coperture finanziare da parte del Tesoro. La principale riguarda il costo delle bollette elettriche. Che cosa succederà se nel secondo trimestre dell’anno il prezzo del gas sarà ancora sui massimi e il governo avrà bisogno nuovamente di 4 miliardi per calmierarlo? Senza contare che ci sono altre questioni “fiscali” che il prossimo anno busseranno prepotentemente alla porta del governo. Come per esempio la questione dell’assegno unico per i figli. Per il 2022 è stata prevista una clausola di salvaguardia per chi ha un Isee inferiore a 25 mila euro per fare in modo che le famiglie non perdano nemmeno un euro nel passaggio dalle detrazioni e dagli assegni familiari, a quello unico per i figli. Ma senza questa clausola, come ha spiegato l’Ufficio parlamentare di bilancio, quasi il 9 per cento delle famiglie subirebbe una riduzione delle proprie entrate mensili. Cosa farà il governo quando tutto ciò sarà evidente? Ma la principale delle incognite resta legata alla pandemia. Nella manovra di bilancio il Tesoro ha messo da parte 150 milioni per affrontare le spese legate ad una nuova emergenza Covid che, però, se dovesse davvero arrivare mostrerebbe immediatamente l’insufficienza delle risorse.

IL PATTO PER IL SECONDO MODULO

Insomma, il patto per il secondo modulo dell’Irpef rischierebbe di essere scritto sull’acqua. Non senza conseguenze. Anche perché il secondo pezzo di quell’accordo è la cancellazione dell’Irap chiesta a gran voce dalle imprese. L’obiettivo, come detto, resta quello di arrivare ad una completa cancellazione del tributo regionale istituito alla fine degli anni Novanta, che all’epoca aveva assorbito una serie di contributi disparati a carico delle imprese. L’Irap, pensata come un’imposta a bassa aliquota e ampia base imponibile (in modo da rendere più difficile l’evasione) è sempre stata particolarmente sgradita ai contribuenti, anche per una sua caratteristica peculiare: quella di essere dovuta anche in caso di perdita. Così nel corso degli anni è stata progressivamente ridimensionata, in particolare per quanto riguarda la componente costo del lavoro. Attualmente il gettito vale circa 25 miliardi di cui però una decina sono pagati da amministrazioni pubbliche e dunque dal punto di vista del bilancio dello Stato rappresentano una partita di giro. In ogni caso, in base alla stessa filosofia della delega, il minor gettito dovrà essere compensato e tra le ipotesi c’è quella di spostare il prelievo su un’addizionale Ires, che però graverebbe solo sulle società e non sui “piccoli”. Ma comunque sia, il mondo delle imprese dopo la delusione della manovra, si aspetta che l’Irap scompaia. Il secondo tempo della riforma fiscale è dunque, un’equazione con molte incognite. Risolverla non sarà semplice. 

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