La scommessa di Biden tra Mosca e Pechino. E Goldman Sachs taglia le previsioni 2022 Usa per paura della variante omicron

La scommessa di Biden tra Mosca e Pechino. E Goldman Sachs taglia le previsioni 2022 Usa per paura della variante omicron
di Flavio Pompetti
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Venerdì 24 Dicembre 2021, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 16:35

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Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno del riallineamento per l’economia statunitense, il momento in cui la domanda di beni di consumo si sarebbe finalmente pareggiata con la capacità di produrli. Gli analisti prevedevano un rallentamento della crescita poderosa (+8,7%) del Pil registrata nell’ultimo trimestre del 2021, ma intravedevano anche una progressiva diminuzione del tasso di inflazione, che alla fine dei prossimi dodici mesi avrebbe dovuto assestarsi al 2,4%. Poi è arrivata la variante Omicron del coronavirus, e ancora una volta le analisi e le previsioni sono divenute carta straccia. Nel porto di Los Angeles, che è il maggiore punto di ingresso negli Stati Uniti delle merci importate, la fila delle navi cargo in attesa di scaricare i container è salita a 170, e il tempo medio della transizione è ora di 17 giorni. Le operazioni di sbarco sono tornate a essere farraginose, e a terra la mancanza di personale è di nuovo critica. Questo vuole dire che l’ingorgo nella filiera produttiva è destinato a durare, e dunque a tradursi in nuovi ritardi nelle consegne, in una protratta penuria di offerta dei beni, e quindi una maggiore pressione inflattiva in arrivo.

IL RITOCCO DELLE PREVISIONI

Sono questi gli elementi che hanno spinto Goldman Sachs a ritoccare le previsioni di crescita per il 2022. La banca d’affari newyorkese ha portato dal 4,2% al 3,8% la proiezione del Pil Usa per il prossimo anno, in linea con la promessa della direttrice generale del Fondo monetario, Kristalina Georgieva, la quale ha annunciato un prossimo, analogo ritocco nelle previsioni sull’andamento del Pil su scala globale. Le condizioni per una ripresa economica sostenuta ci sono perciò tutte, sicché la fine del programma di acquisti di azioni e obbligazioni da parte della Federal Reserve promette di ridurre il deficit di bilancio rispetto al Pil dal 13% corrente al 5% nel prossimo anno. I generosi sussidi governativi e la scarsa disponibilità di merci da acquistare hanno creato un tesoro di 2.000 miliardi di dollari di disponibilità finanziaria addizionale nelle tasche dei consumatori, pronto a riversarsi sul mercato nel momento in cui il flusso dei beni tornerà regolare. L’incognita della pandemia è l’ostacolo più grande sulla strada di un disgelo che a settembre sembrava a portata di mano. La Fed si trova quindi a governare l’economia nazionale tra due poli contrastanti: da una parte la ripresa robusta del secondo semestre del 2021 che richiede una politica monetaria più rigorosa; dall’altra la minaccia di un nuovo raffreddamento della locomotiva che potrebbe essere aggravato dalle sue decisioni. Il dato dell’inflazione al 6,8% a novembre, il livello più alto negli ultimi 39 anni, non ha però lasciato altra via d’uscita alla Federal Reserve: oltre ad accentuare ulteriormente il ritmo del tapering, vale a dire frenare gli acquisti di bond sul mercato, il presidente Jerome Powell ha annunciato almeno tre aumenti dei tassi sul dollaro entro la fine del 2022; e se ciò non bastasse a raffreddare l’economia, si è detto pronto a farne altri tre nel 2024.

FEBBRE DA DISINVESTIMENTO

 Il conseguente rincaro della valuta verde avrà conseguenze su tutte le economie globali, quindi anche su quella europea, ma c’è da augurarsi che l’ampio anticipo con il quale la manovra è stata annunciata possa evitare questa volta il “taper tantrum”, la febbre da disinvestimento che funestò i mercati internazionali dopo le dismissioni avviate dalla Fed nel 2013. Più rilevante per le economie legate al dollaro, inclusa quella italiana, sarà invece lo sviluppo delle tensioni economiche e politiche nei rapporti tra gli Stati Uniti e i suoi principali competitor al momento: Cina e Russia. L’amministrazione Biden ha congelato la trattativa sullo scambio con la prima, ma in questo periodo prolungato di tregua lo sganciamento delle due economie nazionali si è trasformato in una vera e propria divaricazione. Basti ricordare che quasi quotidianamente negli ultimi mesi abbiamo assistito alla cancellazione di società cinesi dai listini di Wall Street, accompagnata da una parallela ritirata delle aziende statunitensi dal mercato cinese.

Naturalmente il ritorno in trincea favorisce tentazioni autarchiche: l’abbiamo visto di recente con l’annuncio dell’amministrazione Biden degli incentivi per l’acquisto di auto elettriche, che saranno concesse solo a chi compra vetture “made in Usa”, per quanto improbabile questa definizione sia oggi, in tempo di mercato globale. La decisione danneggia anzitutto la Germania, che si è immediatamente risentita con Washington accentuando qualche tensione latente: una decisione che però colpisce solo marginalmente l’Italia. D’altronde, il ritorno della produzione nei confini nazionali e la promozione del “buy american” erano parte centrale del programma elettorale di Biden, e la congiuntura pandemica sta potenziando la spinta verso una contrazione degli scambi commerciali, che nel rapporto con la Cina sono tornati quest’anno ai livelli fatti registrare nel 2013.

LA GUERRA DELLE CALDAIE

Un’incognita ancora più rischiosa per l’Italia e per l’Unione europea è l’evoluzione del contrasto tra Stati Uniti e Russia sulle sorti dell’Ucraina. Abbiamo visto all’inizio di dicembre che, nel tentativo di scoraggiare Putin dall’idea di invadere l’Ucraina, il presidente Biden ha puntato in primo luogo sulla minaccia di bloccare lo scorrimento del gas nelle condotte del Nord Stream2. Una decisione abilmente gestita dalla diplomazia statunitense che in men che non si dica ha incassato il consenso cruciale del nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz, disposto ad allinearsi all’embargo anche se la Germania è la principale beneficiaria della fornitura del gas russo. Una scelta, quella dei tedeschi, che però potrebbe tornare indietro come un pericoloso boomerang, visto come Putin considera la gestione dei rubinetti dei gasdotti come una delle sue armi di politica estera, con la quale minacciare il congelamento dei Paesi nemici. Una eventuale “guerra delle caldaie” sarebbe un colpo mortale alla stabilità economica dell’Europa, nel momento in cui la spesa energetica è la prima voce della pressione inflattiva in ognuno dei Paesi membri.

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