Ripresa non significa ritorno al passato

Ripresa non significa ritorno al passato
di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 16 Settembre 2020, 09:31 - Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 16:49
Ripresa e resilienza: queste le due parole d’ordine che caratterizzano il piano europeo per riemergere dall’incubo sanitario, economico e sociale, che l’emergenza Covid ha diffuso in questo 2020. Due parole non casuali, certamente evocative, che non devono limitarsi a essere solo un’etichetta accattivante ma devono essere comprese e tradotte in azioni utili e concrete. È la finalità del Dossier «Obbligati a Crescere - Ultimo Treno», un contributo dei quotidiani del Gruppo Caltagirone affinché la grande occasione che viene offerta all’Italia non cada nel vuoto. Nei prossimi anni l’Unione europea metterà a disposizione dei Paesi membri un ammontare di risorse mai sperimentato prima: il “Recovery and resilience facility” – meglio noto come “Recovery fund” - sarà finanziato da trasferimenti da parte degli stessi Stati (poi redistribuiti in base a predeterminati criteri); prestiti a tassi nulli, se non addirittura negativi; nuove imposte comunitarie, create specificatamente per finanziare gli aiuti ma anche con l’obiettivo di rinforzare l’orientamento ambientale e sostenibile che Commissione e Consiglio stanno dando all’Unione. Il piano, ancora al vaglio del Parlamento europeo per la definitiva conferma, richiede una certa procedura, tanto per la richiesta dei fondi quanto per la loro effettiva erogazione; più precisamente, le richieste dei singoli Stati dovranno essere ben motivate, coerenti con gli impegni presi anche in passato in sede europea, e inserite in specifici piani nazionali di riforme e investimenti pluriennali.
L’erogazione sarà invece soggetta alla verifica del raggiungimento di obiettivi intermedi e finali, specificati dagli stessi piani nazionali: non un controllo antidemocratico come una cattiva propaganda sovranista vuol far credere, bensì un giusto meccanismo di tutela per tutti i Paesi coinvolti e uniti in questo sforzo solidaristico. E, per essere espliciti, per l’Italia si prospetta un saldo nettamente positivo. 
Tuttavia, il pericolo che si profila è quello di sprecare una simile occasione. È un pericolo reale. L’Italia è un grande Paese e in particolare dimostra di esserlo dopo i periodi più bui e difficili. Ma gli ultimi decenni non ci hanno certo contraddistinto come Paese esemplare. Cosa significa “ripresa” per il nostro Paese? Non certo tornare semplicemente al 2019 o al 2008, agli anni cioè precedenti la crisi pandemica e quella finanziaria globale. È infatti dagli anni ’70 che abbiamo sostanzialmente smesso di crescere, e quando lo abbiamo fatto siamo rimasti sempre ben lontani da Paesi a noi vicini come Francia, Germania e ultimamente anche Spagna. Abbiamo accumulato ritardi che riguardano principalmente i fattori che determinano la produttività: il livello del capitale umano, la qualità delle infrastrutture, i ritardi della burocrazia, i divari territoriali. Paradossalmente, si potrebbe pensare che proprio questo differenziale negativo determini ampie zone di miglioramento. Ma il pericolo, appunto, è proprio che il Paese non sia più abituato all’ambizione di pensare in grande, di programmare, di avere una visione di lungo termine. Servirebbe da subito un cambio di passo, dalla semplice amministrazione giorno per giorno alla politica più sincera, un cambio che deve interessare innanzitutto le due principali istituzioni politiche del Paese, parlamento e governo, ma che coinvolga poi anche le altre istituzioni e tutti coloro che hanno a cuore il futuro del Paese. Non è una questione affatto secondaria. L’orizzonte temporale di implementazione del Recovery fund attraverserà, di qui al 2023, diverse scadenze elettorali e culminerà, al più tardi proprio nel 2023, con le elezioni politiche. È del tutto legittimo che i partiti vogliano vincere le elezioni e confermare il loro potere, ma questo obiettivo - per sua natura parziale - non può e non deve pregiudicare la vittoria del Paese in una duplice e ben più cruciale partita: quella contro gli effetti devastanti della pandemia e quella, tanto solidaristica quanto competitiva, con i partner europei. Le proposte e le sollecitazioni che emergono dalle pagine che seguono sono numerose, ricche e autorevoli, e si uniscono a quelle arrivate, per esempio, dalla Banca d’Italia: digitalizzare e investire in capitale umano, a partire dalla pubblica amministrazione; rilanciare il mondo dell’istruzione, come infrastrutture e come servizio, in grado di valorizzare al meglio il corpo docente, gli studenti e la necessità delle loro famiglie, in special modo le donne, affinché scelgano liberamente i propri percorsi di vita e di lavoro; investire negli strumenti di crescita sostenibile, coinvolgendo privati e aziende; colmare il gap infrastrutturale ma soprattutto di tutela del diritto tra le diverse aree del Paese, a partire dal meridione e dagli altri territori fragili.
E cosa significa invece “resilienza”? In psicologia e a livello individuale, essa è la capacità di reagire e superare le difficoltà che incontriamo; un concetto, tuttavia, ancora da definire e coniugare a livello politico e sociale. Al contrario, è abbastanza evidente quale sia il contrario di resilienza, e cioè l’assistenzialismo, l’uso della difficoltà per mantenere il proprio potere. Pratica ben diffusa nella storia della politica economica del nostro Paese e ancora oggi una forte tentazione, nonostante i recenti richiami di personalità come Mario Draghi e il commissario Paolo Gentiloni sulla necessità di usare debito e risorse europee in maniera produttiva. Ne sono un esempio misure come “Quota 100”, i condoni, le assunzioni a tappeto nel pubblico impiego senza valutazioni di merito, l’accanimento terapeutico nei confronti di aziende ormai fallite, e la miriade di detrazioni fiscali ad hoc per minuscole ma ben rappresentate categorie economiche. Questo non significa che l’assistenza sia nemica della crescita economica, anzi, è vero proprio il contrario. L’assistenzialismo invece utilizza risorse, preferibilmente fornite da altri (le generazioni future), non per risolvere un problema, bensì per mantenerlo, così da avere un’arma di ricatto elettorale sempre utile nelle proprie mani. Il Paese che saremo anche solo tra pochi anni dipende in modo cruciale dalle scelte che stiamo per fare oggi. Il contributo di ciascuno di noi, intellettuali, organi di informazione, elettori e cittadini, sarà fondamentale.
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