Nel mondo del lavoro sta cambiando qualcosa: in Italia come in altre parti del pianeta la fuoriuscita dall’emergenza pandemica - o almeno dalla sua fase più acuta - ha già prodotto smottamenti più o meno vistosi, che nel nostro caso vanno ad aggiungersi a criticità strutturali già ben note. L’allarme lanciato dall’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini sulle 100 mila figure professionali difficili da reclutare per i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza si inserisce in questo contesto in cui l’economia che riparte a grande velocità un po’ dappertutto rischia di essere frenata dalle sue stesse strozzature: vale per l’offerta di lavoro come per le materie prime.
Dunque le imprese cercano dipendenti che spesso non riescono a trovare, mentre resta ampia la massa dei disoccupati.
Se questa è l’eredità del passato, ora che vanno realizzati in tempi rapidi i progetti del Pnrr le aziende sono alla ricerca di profili ”mirati”. All’osservazione di Salini ha risposto a distanza il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini spiegando che sono circa 200 mila i disoccupati con precedenti esperienze nell’edilizia: i quali sulla carta, dietro adeguata formazione, potrebbero tornare attive nel settore. Naturalmente si tratta di un passaggio tutt’altro che scontato. Non è facile selezionare professionalità che magari non richiedono anni e anni di studio ma una solida specializzazione: e infatti in testa alla graduatoria di quelle difficili da reperire, elencate nei rapporti del sistema informativo Excelsior realizzato da Unioncamere e Anpal, si trovano gli informatici ma anche operai specializzati quali fonditori, saldatori, lattonieri, fabbri ferrai e costruttori di utensili.
IL BACINO
Quanto è grande il bacino teorico degli italiani che potrebbero lavorare ma per vari motivi non lo fanno? Ai quasi 2 milioni e mezzo di disoccupati rilevati nel secondo trimestre di quest’anno dall’Istat (sono coloro che cercano attivamente un’occupazione) si deve aggiungere una certa quota degli inattivi. Tra le file dei quali si trovano ad esempio circa 200 mila persone in cassa integrazione assenti dal lavoro da più di tre mesi (che non sono considerati occupati).
Sempre nel suo rapporto sul mercato del lavoro nel secondo trimestre l’istituto di statistica segnala il picco storico raggiunto dal tasso di posti vacanti nel complesso delle attività economiche, pari all’1,8 per cento: esprime il rapporto tra le posizioni non occupate e il totale di quelle disponibili. Questo indicatore letto insieme al tasso di disoccupazione che resta alto al 9,8 per cento (gli economisti la chiamano curva di Beveridge) evidenzia un forte disallineamento tra domanda e offerta di lavoro.
GLI EQUILIBRI
Insomma i vecchi equilibri sembrano essere saltati. Lo suggerisce pure un altro elemento che sta emergendo nel nostro Paese: le dimissioni volontarie dal lavoro, il cui numero è cresciuto nel secondo trimestre rispetto al precedente sforando quota 500 mila. Un fenomeno già ben noto all’estero (negli Stati Uniti si parla di Great Resignation) che dovrà essere analizzato ancora ma potrebbe essere il segnale che parecchi italiani stanno ripensando le proprie scelte lavorative e di vita. Anche se non è ancora chiaro in che direzione. Il processo in corso è almeno in parte una conseguenza degli sconvolgimenti indotti dal Covid, compreso l’incremento dei sussidi resi disponibili dal governo soprattutto nella fase più acuta. Compresa la Cig. Sulla quale ieri Bonomi è intervenuto.
«Le aziende», ha detto, «versano ogni anno allo Stato 3 miliardi di cassa integrazione, ricevendo prestazioni per 600 milioni, siamo contributori netti per 2,4 miliardi. Non possiamo essere sempre bancomat di Stato». Una fetta di italiani, insomma, potrebbe essere diventata più selettiva e meno disposta ad accettare un’occupazione qualsiasi: la precarietà diffusa in molti segmenti del mercato del lavoro e il livello delle retribuzioni certo non aiutano. Ma anche le scelte di questo tipo, insieme alle speranze di chi invece il lavoro l’ha perso e ne cerca uno nuovo, si scontrano con le antiche carenze del nostro sistema: politiche attive mai effettivamente decollate e formazione che non fa la differenza. Ecco perché non sarà semplice, per quei 200 mila disoccupati con esperienza nelle costruzioni, trasformarsi in protagonisti dei progetti del Pnrr.