Reddito di cittadinanza bocciato dalla Corte dei conti: «Centri per l’impiego, così è un flop»

Reddito di cittadinanza, centri per l impiego flop: «Manca l organizzazione»
di Michele Di Branco
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Martedì 28 Settembre 2021, 00:08

I Centri per l’impiego annaspano nella confusione organizzativa e non riescono a trovare un posto di lavoro a chi incassa il Reddito di Cittadinanza. Con il risultato che il sussidio, si fatto, si sta trasformando in un assegno a tempo indeterminato che sostituisce l’occupazione. Tradendo lo spirito che lo ha ispirato. Dura requisitoria della Corte dei Conti nei confronti della riforma introdotta nel 2018 dal governo Conte I. «Nel nostro Paese esistono eterogenei assetti organizzativi, con approcci, metodologie e sistemi informativi diversificati e sovente non dialoganti tra di loro» attaccano i magistrati contabili nell’indagine sul «Funzionamento dei centri per l’impiego nell’ottica dello sviluppo del mercato del lavoro». 

Centri per l'impiego, le criticità

Per far marciare il meccanismo, avverte la Corte, sarebbe invece essenziale una definizione chiara di misure, interventi e regole che, pur consentendo il dovuto margine di flessibilità richiesto dalle specificità territoriali, sia coordinata dal livello centrale, al fine di assicurare sia una maggiore rispondenza dell’operatività dei Centri per l’impiego alle esigenze regionali, sia di fornire servizi omogenei su tutto il territorio nazionale.

Nel mirino finisce anche l’Anpal. «Le procedure di raccolta e analisi dei dati registrati a livello territoriale gestiti su data base locali – si legge nell’indagine – hanno rilevato una inadeguata azione. Nonostante l’Agenzia avviato un processo di trasformazione digitale per l’evoluzione dei sistemi informativi per consentire l’interscambio di flussi documentali e l’integrazione tra i diversi sistemi in uso, anche in vista dello sviluppo della Piattaforma digitale per la gestione dei beneficiari di Reddito di Cittadinanza, la messa a punto del Sistema unico avviene con notevoli difficoltà, anche per una non adeguata dotazione informatica a livello territoriale e un collegamento in rete non adatto alle nuove funzioni dei Centri». 

Senza rete

I Sistemi – fanno notare i magistrati – dovrebbero essere integrati e interoperabili per garantire i livelli essenziali di prestazione con una logica di case management. Elemento che manca totalmente. Non solo. In ritardo appaiono anche il coordinamento del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la messa a punto di percorsi individuali di orientamento alle politiche attive previste nel sistema regionale e il monitoraggio costante del mercato del lavoro, anche attraverso una più incisiva campagna di informazione e di comunicazione. Gli effetti di questo caos organizzativo sono pessimi. Per la Corte, la scarsa offerta di lavoro e l’inadeguata conoscenza dell’effettivo mercato del lavoro impedisce, di fatto, ai Centri per l’impiego di costituire l’anello di congiunzione per un’occupazione sostenibile e per una collocazione lavorativa ideale. Così viene suggerito il rafforzamento dell’organico figure più specifiche quali orientatori, psicologi, informatici, esperti in consulenza aziendale e mediatori culturali.

Nuova rotta

Insomma, bisogna cambiare rotta in quanto il bilancio dell’operazione Reddito è in perdita. Ad ottobre 2020, il numero complessivo dei beneficiari soggetti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro (i cosiddetti Work Ready) - comprensivo di alcune categorie (esclusi o esonerati, presi in carico e inseriti in una politica, rinviati a percorsi di inclusione sociali) - era pari a un milione e 369 mila, mentre coloro che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di RdC era solo di 352 mila, di cui 192 mila ancora attivo. 
Solo una sparuta minoranza, in pratica, trova un lavoro. E quei pochi che ce la fanno restano comunque precari. Il 65% dei soggetti ha firmato un contratto a tempo determinato, il 15,4% un contratto a tempo indeterminato e il 4,1% un contratto di apprendistato. E ancora: il 69,8% dei contratti a tempo determinato ha una durata inferiore ai 6 mesi, mentre appena una quota del 9,3% ha superato il termine annuale. 

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