Pietro Salini, Webuild: «Caro-energia e guerra il governo deve reagire»

Il ceo: «I grandi gruppi hanno spalle larghe, ma le pmi rischiano davvero»

Pietro Salini
di Osvaldo De Paolini
5 Minuti di Lettura
Venerdì 18 Marzo 2022, 07:41

Pietro Salini, quale amministratore delegato di Webuild Group, a lei sono affidati i destini del principale costruttore nazionale. Un settore in forte ripresa nel 2021, ma che ora corre seri rischi. Ieri il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha lanciato dalle colonne del “Messaggero” un allarme che riguarda tutta l’industria italiana. Siamo dunque all’economia di guerra anche nel suo settore? 
«La guerra ha ulteriormente aggravato il problema dei rincari delle materie prime che rischiano di finire fuori controllo e bloccare davvero l’industria, con strozzature su tutta la filiera e per tutti i settori. Le imprese hanno cercato di assorbire le criticità ingenerate dalla pandemia, ma dopo due anni di difficoltà e di fronte a quanto accade in Ucraina si rischia di vedere interi comparti costretti a chiudere o ridurre produzione e occupazione».


Quindi condivide l’allarme lanciato dal presidente della Confindustria?
«Sicuramente fronteggiare l’aumento dei costi energetici e insieme la carenza di materie prime e semilavorati è il tema centrale su cui il governo deve trovare con urgenza soluzioni per evitare che dalla crescita si passi alla peggiore delle recessioni. Anche perché in Italia l’aumento dei prezzi è particolarmente impattante rispetto ad altri paesi, in quanto non esiste un sistema di adeguamento-prezzi nei contratti che neutralizzi incrementi di costo. I costruttori non possono continuare a sostenere questi prezzi: il nostro lavoro è gestire qualità, risorse ed ingegneria per garantire la migliore esecuzione». 


Con quali strumenti un’azienda può rispondere a questo scenario da tempesta perfetta?
«Due sono le condizioni per continuare a produrre nel nostro settore: dal punto di vista del committente, un sistema che definisca e automatizzi il meccanismo di revisione dei prezzi e semplifichi le procedure; dal punto di vista del costruttore, una visione industriale di lungo periodo e soprattutto un sistema di monitoraggio costante del rischio».


Quali sono i problemi che Webuild si trova ad affrontare in questa fase?
«Premesso che non siamo presenti né in Russia né in Ucraina, abbiamo il 44% del nostro portafoglio ordini in Italia, il 13% in Australia, l’11% in Africa, il 10% in Europa e l’8% nel Nord America. Finora i numeri ci hanno dato ragione: in uno scenario ad alto impatto a causa della pandemia, siamo passati in tre anni da 36 a 45 miliardi di portafoglio ordini e da 49mila a 80mila persone (16.000 in Italia) che lavorano con noi. La nostra situazione decisamente solita anche sotto il profilo finanziario non deve però trarre in inganno: nel settore vi sono numerose realtà che stanno correndo seri rischi di tenuta».


La vostra presentazione al mercato ha puntato molto sul tema del de-risking: come si possono tenere sotto controllo i rischi in uno scenario cosi complesso?
«Serve un processo strutturato su tutte le funzioni del gruppo, è un tema che deve radicare nella cultura dell’azienda. Il contenimento del rischio avviene non solo attraverso l’individuazione delle aree su cui investire, ma anche attraverso la capacità di generare reddito e cassa nei singoli progetti, avvalendosi dell’esperienza dei lavoratori di tutta la filiera. È anche grazie a loro se abbiamo acquisito 38 nuovi progetti per un valore di quasi 22 miliardi. Cito per esempio Al Bayt Stadium in Qatar, la sezione “Tulfes-Pfons” del Tunnel del Brennero, il Gerald Desmond Bridge a Long Beach, la metro Cityringen di Copenhagen, la metro di Doha, oltre al Ponte di Genova».


Torniamo al settore in cui operate. Quanto è concreto il rischio di un rallentamento nei cantieri in corso? 
«Il cambiamento è in atto da diversi mesi e il treno non si può fermare corsa: tra il primo trimestre 2021 e quello del 2020 gli investimenti nelle grandi opere sono aumentati del 14,7%.

Oggi solo Webuild in Italia sta realizzando 27 progetti infrastrutturali, lavorando con 7.500 imprese per un valore di contratti pari a 7,5 miliardi. Siamo al lavoro nel Sud Italia, dove abbiamo 15 grandi progetti. Ma se noi abbiamo le spalle forti, certamente molte delle migliaia di società che collaborano con noi corrono gravi rischi. E ciò alla lunga impatta sull’intero sistema».


Il premier Mario Draghi ha di recente definito Genova un modello per varare il Pnrr, il luogo da dove far partire la spinta per un vero cambiamento del Paese. Lei pensa che la situazione d’emergenza possa contribuire a cambiare il Paese? Bonomi parla di grave inerzia della burocrazia, che si muove come se in questi due anni non fosse accaduto nulla.
«Capisco lo scetticismo. Ed è giusto che il presidente degli industriali entri nel vivo delle cause. Ma oggi, di fronte al dramma internazionale, deve prevalere l’ottimismo della ragione e credo che questo paese abbia necessità di un patto per ricostruirsi, con tutti gli attori pubblici e privati. Nei cantieri del Terzo Valico dei Giovi, l’alta velocità Genova-Milano, accanto a Webuild ci sono oltre 2.000 aziende italiane, soprattutto piccole e medie imprese, titolari di know-how e tecnologie uniche al mondo. Il nostro grande patrimonio risiede nella complessità dei nostri talenti: questo è il momento di metterli insieme».


Quali sono le infrastrutture secondo lei imprescindibili per lo sviluppo del Paese, tenendo in particolare conto la necessità di rafforzare il Centro-Sud? 
«Siamo ancora un Paese a due velocità, non si può pensare di consolidare questa fase di cambiamento senza dare una spallata a questa dicotomia. Bisogna partire dalle connessioni soprattutto al Sud, senza le connessioni non c’è sviluppo, e quindi dobbiamo investire in collegamenti ad alta velocità e in sicurezza, attraverso ferrovie e strade che creino una rete in grado di collegare il Sud al Nord Italia e all’Europa. I 16 progetti della rete europea Ten-T da Nord a Sud che stiamo realizzando per un totale di 400 chilometri, sono un esempio importante».


Gli investitori chiedono alle aziende sempre più attenzione sui temi della sostenibilità, ma in un momento così complesso ha senso preoccuparsi della sostenibilità?
«Certamente, purché si tratti di sostenibilità in senso reale, che si misura con i numeri. Noi abbiamo preso impegni chiari, come la riduzione del 50% delle emissioni di gas serra, o l’ulteriore riduzione degli infortuni. Gli investimenti che stiamo facendo in tecnologia ci faranno avanzare ulteriormente verso gli obiettivi attesi anche in termini di economia circolare, ambito nel quale già nel 2021 all’interno dei nostri cantieri il 98% dei materiali di scavo è stato riutilizzato e il 51% dei rifiuti prodotti è stato inviato a recupero. Ecco, per noi questa è sostenibilità in senso reale».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA