Sergio Marchionne lo chiamava con ironia "il mio stalker" e qualche volta, anche in pubblico, "Tommi". Per dieci anni Tommaso Ebhardt, oggi direttore della sede di Milano di Bloomberg, agenzia di stampa americana specializzata in economia, è stato il giornalista che ha seguito passo passo l'amministratore delegato di Fiat Chrysler scomparso un anno fa.
Ebhardt, cosa insegna il "caso Marchionne"?
«Che il lavoro paga. L'abnegazione e il lavoro duro, senza secondi fini e per il gusto di farlo bene è ciò che Marchionne ha incarnato per tutta la sua vita. Frequentandolo è la prima lezione che mi ha trasmesso».
Perché era così ossessionato dal lavoro?
«Per un mix di ragioni che in lui formavano una miscela esplosiva: aveva una intelligenza straordinaria, era colto e avva una feroce voglia di affermazione. La sua famiglia ha avuto un ruolo enorme: una madre d'acciaio che andava a trovare spessissimo a Toronto e la morte della sorella, a trent'anni, considerato il vero genio della famiglia. Si sentiva in qualche modo obbligato a superarsi ogni giorno per dimostrare d'essere più bravo, prima della sorella, poi di tutti gli altri manager mondiali».
Come lavorava?
«Convocava spesso riunioni fiume nei week end e c'erano giorni nei quali non si fermava per 20 ore. Nel libro racconto un episodio: una volta siamo tornati assieme in aereo da Londra a Torino. Era sera tardi, Io ero distrutto e ho preso un treno per tornare a casa. Lui pure era distrutto ma è andato a lavorare a Mirafiori. Gli ho chiesto chi glielo faceva fare. E lui: ho 300.000 persone sulle spalle».
Eppure in Italia era vissuto come un personaggio divisivo: era buono o cattivo?
«Marchionne sapeva essere spietato ed era irascibile. Era tagliente. Difficile per tutti, anche per i suoi azionisti. Spremeva le persone. Ha mandato a casa decine di manager sia di Fiat che di Chrysler. Aveva una determinazione estrema, direi bestiale. "I'm a fixer", quasi si scusava. Ma aveva anche slanci incredibili. Nel capodanno del 2014 annunciò l'acquisto del 100% di Chrysler distruggendo la mia vacanza sulla neve. Io tornai in redazione lui, dopo qualche giorno, chiese perdono a mia figlia con un regalino e una lettera scritta di suo pugno. Negli ultimi due anni si era addolcito. Era diventato più affettuoso, mi chiedeva dei miei figli. Anche i suoi collaboratori erano stupefatti».
Com'era lavorare con Marchionne?
«Un'esperienza unica, irripetibile, travolgente e totalizzante. Richard Palmer, che lui scovò in un meandro di Fiat nominandolo Cfo, cioè responsabile finanziario e quasi un numero due, mi ha raccontato di aver passato più sabati al Lingotto che con la sua famiglia ma che non poteva staccarsi da lui: gli regalava libri su Wittgenstein, cd musicali, parlavano di cinema. Marchionne era un capo dal quale imparavi di tutto».
Eppure lei ha rifiutato la sua offerta di lavoro?
«La mia passione è fare il giornalista e non il comunicatore. Poi tutti i suoi collaboratori mi dicevano: se ti fa un'offerta d'assunzione non accettare, se dici "sì" la tua vita è finita».
E lui come reagì?
«Fu sorpreso. Mi disse: "Sta dicendo "no" a Sergio Marchionne". Poi aggiunse: "Ma se questo è il suo sogno..."».
Quando e perché lei non è più stato un giornalista qualsiasi agli occhi di Marchionne?
«Non sapevo nulla d'auto e ho dovuto studiare tantissimo, inoltre arrivavo ore prima agli eventi ai quali lui partecipava. Anche a lui piaceva arrivare prima e dunque ha avuto modo di notarmi. Poi nel 2012, dopo un paio d'anni che lo seguivo, si arrese e decise di concedermi il primo scoop con una intervista nella quale annunciò che la Fiat cambiava rotta: non avrebbe costruito una nuova utilitaria per sostituire la Punto. Alla fine mi disse: ma lo sa che è bravo?».
Passiamo dall'uomo Marchionne alla sua figura pubblica. Perché soffriva così tanto per le critiche che riceveva in Italia?
Ma capiva l'Italia e gli italiani?
E dunque?
Perché gli italiani non lo hanno capito?
Nel libro definisce "anarchica" la sua comunicazione.
Quale battaglia ha perso in modo più rovinoso?
«Ha rimesso in piedi le fabbriche italiane a partire dai bagni e dalle mense operaie. Visitava spesso gli stabilimenti, e con passione, ma se chiedi in giro agli italiani in tanti diranno che era uno schiavista. Le fabbriche sono la sua eredità più importante: sono belle, pulite, la gente ci lavora enormemente meglio che in passato, dentro ci ha costruito delle scuole che si chiamano Academy per imparare a lavorare senza fatica, fanno prodotti di alta gamma come le Alfa e non più solo utilitarie.
E ha spostato in Olanda la sede FCA.
«E' vero. Ma la verità ha anche un'altra faccia: nel Sud dell'Italia oggi si producono 200.000 Jeep che vengono esportate in gran parte in America. Quando lo dico la gente strabuzza gli occhi. Ma è così: quale delocalizzazione? L'Italia vende le Jeep agli americani, come farsi pagare il ghiaccio dagli esquimesi, ma in pochi riconoscono a Marchionne questo incredibile risultato».
E ora? La FCA post-Marchionne saprà sfruttare questo patrimonio?
Torniamo al Marchionne manager: nel suo libro scrive che l'America gli ha regalato soddisfazioni gigantesche ma anche lo stop al progetto di fusione con GM.
Conseguenze?
«Quando nel 2015 capì che non gli avrebbero consentito di salire sul tetto del mondo ebbe un colpo psicologico. Sul piano manageriale trasferì tutta la sua immensa forza sull'obiettivo di azzerare il debito FCA. Obiettivo che raggiunse in tre anni, con una dedizione implacabile e stressando FCA fin nelle più piccole strutture. Ma non era la stessa cosa del capolavoro manageriale mondiale che aveva in mente: cioè la nascita di una nuova Toyota, più forte di Toyota, in grado di portare l'auto nel futuro».
Restano due curiosità. La prima: Marchionne è accusato d'essere più un finanziere che un industriale. Invece lui criticò spesso il capitalismo finanziario. Può chiarire questo aspetto?
«L'obiettivo di Marchionne era quello di creare un’azienda che superasse la rivoluzione tecnologica e durasse nel tempo ma anche estrarre valore per i suoi azionisti. La finanza non era mai fine a se stessa nel suo progetto».
E infine la malattia. In una delle ultime interviste rilasciata proprio a lei, Marchionne dice che fare bene il mestiere del manager dell'auto è "consuming". Che effetto le fece quella parola? E quando capì che Marchionne era alla fine del suo viaggio?
«Negli ultimi mesi diceva di essere stanco. Credevo fosse solo la fatica per portare a termine la sua opera e la consapevolezza che il suo ruolo da CEO stava per finire, non avevo capito fosse gravemente malato, l’ho saputo come tutti solo dal comunicato postumo dell’ospedale di Zurigo. Poi fu il silenzio del suo cellulare a mettermi in allarme: compresi che le cose non andavano bene. Speravo tanto di sbagliarmi».
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