Marchionne, il libro di Ebhardt: «La sua eredità più importante? Le più belle fabbriche italiane»

La copertina del libro "Sergio Marchionne" di Tommaso Ebhardt
di Diodato Pirone
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Lunedì 29 Luglio 2019, 10:12 - Ultimo aggiornamento: 26 Agosto, 10:55

Sergio Marchionne lo chiamava con ironia "il mio stalker" e qualche volta, anche in pubblico, "Tommi". Per dieci anni Tommaso Ebhardt, oggi direttore della sede di Milano di Bloomberg, agenzia di stampa americana specializzata in economia, è stato il giornalista che ha seguito passo passo l'amministratore delegato di Fiat Chrysler scomparso un anno fa. 

«Marchionne era la mia ossessione», dice Ebhardt. Che con lui ha sviluppato un rapporto personale oltre che professionale. Entrambi hanno mantenuto fino all'ultimo il "lei" ma si messaggiavano su whatsapp. A questo rugbista di 44 anni, di origini trevigiane, che viaggia tutt'oggi su un'auto vecchia di 11 anni ed è un giornalista estraneo a giochi di potere, Marchionne ha concesso non solo scoop su Fiat ma - caso rarissimo fra i potenti - ha  consegnato buona parte della sua visione del mondo e dell'Italia. Una visione che emerge con profondità, e talvolta in modo commovente, nel libro "Sergio Marchionne" che Ebhardt ha scritto per Sperling&Kupfer raccontando le impensabili vittorie ma anche le sconfitte, gli errori e le grandi amarezze di un manager e di un uomo fuori dal comune.
 
Ebhardt, cosa insegna il "caso Marchionne"?
«Che il lavoro paga. L'abnegazione e il lavoro duro, senza secondi fini e per il gusto di farlo bene è ciò che Marchionne ha incarnato per tutta la sua vita. Frequentandolo è la prima lezione che mi ha trasmesso».

Perché era così ossessionato dal lavoro?
«Per un mix di ragioni che in lui formavano una miscela esplosiva: aveva una intelligenza straordinaria, era colto e avva una feroce voglia di affermazione. La sua famiglia ha avuto un ruolo enorme: una madre d'acciaio che andava a trovare spessissimo a Toronto e la morte della sorella, a trent'anni, considerato il vero genio della famiglia. Si sentiva in qualche modo obbligato a superarsi ogni giorno per dimostrare d'essere più bravo, prima della sorella, poi di tutti gli altri manager mondiali».

Come lavorava?
«Convocava spesso riunioni fiume nei week end e c'erano giorni nei quali non si fermava per 20 ore. Nel libro racconto un episodio: una volta siamo tornati assieme in aereo da Londra a Torino. Era sera tardi, Io ero distrutto e ho preso un treno per tornare a casa. Lui pure era distrutto ma è andato a lavorare a Mirafiori. Gli ho chiesto chi glielo faceva fare. E lui: ho 300.000 persone sulle spalle».

Eppure in Italia era vissuto come un personaggio divisivo: era buono o cattivo?
«Marchionne sapeva essere spietato ed era irascibile. Era tagliente. Difficile per tutti, anche per i suoi azionisti. Spremeva le persone. Ha mandato a casa decine di manager sia di Fiat che di Chrysler. Aveva una determinazione estrema, direi bestiale. "I'm a fixer", quasi si scusava. Ma aveva anche slanci incredibili. Nel capodanno del 2014 annunciò l'acquisto del 100% di Chrysler distruggendo la mia vacanza sulla neve. Io tornai in redazione lui, dopo qualche giorno, chiese perdono a mia figlia con un regalino e una lettera scritta di suo pugno. Negli ultimi due anni si era addolcito. Era diventato più affettuoso, mi chiedeva dei miei figli. Anche i suoi collaboratori erano stupefatti».

Com'era lavorare con Marchionne?
«Un'esperienza unica, irripetibile, travolgente e totalizzante. Richard Palmer, che lui scovò in un meandro di Fiat nominandolo Cfo, cioè responsabile finanziario e quasi un numero due, mi ha raccontato di aver passato più sabati al Lingotto che con la sua famiglia ma che non poteva staccarsi da lui: gli regalava libri su Wittgenstein, cd musicali, parlavano di cinema. Marchionne era un capo dal quale imparavi di tutto».

Eppure lei ha rifiutato la sua offerta di lavoro?
«La mia passione è fare il giornalista e non il comunicatore. Poi tutti i suoi collaboratori mi dicevano: se ti fa un'offerta d'assunzione non accettare, se dici "sì" la tua vita è finita».

E lui come reagì?
«Fu sorpreso. Mi disse: "Sta dicendo "no" a Sergio Marchionne". Poi aggiunse: "Ma se questo è il suo sogno..."».

Quando e perché lei non è più stato un giornalista qualsiasi agli occhi di Marchionne?
«Non sapevo nulla d'auto e ho dovuto studiare tantissimo, inoltre arrivavo ore prima agli eventi ai quali lui partecipava. Anche a lui piaceva arrivare prima e dunque ha avuto modo di notarmi. Poi nel 2012, dopo un paio d'anni che lo seguivo, si arrese e decise di concedermi il primo scoop con una intervista nella quale annunciò che la Fiat cambiava rotta: non avrebbe costruito una nuova utilitaria per sostituire la Punto. Alla fine mi disse: ma lo sa che è bravo?».

Passiamo dall'uomo Marchionne alla sua figura pubblica. Perché soffriva così tanto per le critiche che riceveva in Italia?
«Perché voleva un bene profondissimo all'Italia ma la vedeva con gli occhi di un emigrato. Figlio di Concezio, un maresciallo dei carabinieri, e di una esule istriana, Maria Zuccon, che durante la guerra aveva perso il padre e un fratello uccisi uno dai comunisti slavi e l'altro dai nazisti, non poteva non essere attaccato all'Italia in un modo tutto suo».

Ma capiva l'Italia e gli italiani?
«Considerava l'Italia e la sua classe dirigente lenta e bizantina e una parte degli italiani gente che non voleva cambiare. Invece lui era un rivoluzionario vero, non a chiacchiere. Ha asfaltato la vecchia Fiat. Ha rivoltato la cultura aziendale sabauda, ha spostato il baricentro aziendale in America e ha fatto entrare le fabbriche italiane nell'era 4.0 salvando migliaia di posti di lavoro. Ha preso un'azienda bolsa e alla deriva che valeva sui 5 miliardi di euro e l'ha portata a valere 60/70 miliardi considerando FCA, New Holland e Ferrari. Ha offerto un esempio di abnegazione mettendoci sempre la faccia come rararmente capita a un capo italiano. Ha mostrato visione globale ad un paese chiuso su se stesso, come in passato aveva fatto solo Enrico Mattei, senza montarsi la testa anche se aveva un patrimonio immenso. Nel libro racconto della cena a casa sua a Detroit: sparecchiò lui. Tuttavia dell'Italia diffidava. Diceva che se avevamo scelto di stare in una moneta seria dovevamo comportarci seriamente ma poi constatava con amarezza che non eravamo seri».

E dunque?
«Gli è capitato di risentirsi e di sbagliare ancora di più. Era intellettualmente onesto e diceva che se aveva chiesto  ai sindacati americani di cambiare radicalmente, doveva chiedere altrettanto a quelli italiani. Ma poi pensava che chi non stava con lui era contro di lui e in Italia si dimostrò molto duro nei confronti della Fiom dopo lo scontro di Pomigliano».

Perché gli italiani non lo hanno capito?
«Non tutti, una parte del Paese ha deciso di farne un nemico. Altri mi scrivono dopo aver letto il libro confessando che ne sentono la mancanza. Ma anche lui ha avuto qualche responsabilità: era un fuoriclasse nel marketing, i suoi video pubblicitari con Eminem e Clint Eastwood  hanno fatto storia in America, ma non ha mai compreso né l'importanza né i meccanismi della comunicazione giornalistica forse perché questa non era nel conto economico».

Nel libro definisce "anarchica" la sua comunicazione.
«Si, decideva tutto da solo. Era ingestibile per la comunicazione di una grande azienda. Questo suo modo diretto di parlare, semplice e molto vero fino talvolta ad essere infelice ma con concetti spesso sofisticati e figli di una cultura vastissima, ha funzionato in America dove era considerato un guru. In Italia no. Da noi gli ha creato danni enormi e sul fronte della guerra delle parole ha subito una sconfitta clamorosa».

Quale battaglia ha perso in modo più rovinoso?
«Ha rimesso in piedi le fabbriche italiane a partire dai bagni e dalle mense operaie. Visitava spesso gli stabilimenti, e con passione,  ma se chiedi in giro agli italiani in tanti diranno che era uno schiavista. Le fabbriche sono la sua eredità più importante: sono belle, pulite, la gente ci lavora enormemente meglio che in passato, dentro ci ha costruito delle scuole che si chiamano Academy per imparare a lavorare senza fatica, fanno prodotti di alta gamma come le Alfa e non più solo utilitarie. Certo non ha raggiunto la piena occupazione e sono molte le incognite per il futuro».

E ha spostato in Olanda la sede FCA.
«E' vero. Ma la verità ha anche un'altra faccia: nel Sud dell'Italia oggi  si producono 200.000 Jeep che vengono esportate in gran parte in America. Quando lo dico la gente strabuzza gli occhi. Ma è così: quale delocalizzazione? L'Italia vende le Jeep agli americani, come farsi pagare il ghiaccio dagli esquimesi, ma in pochi riconoscono a Marchionne questo incredibile risultato».

E ora? La FCA post-Marchionne saprà sfruttare questo patrimonio?
«E' quello che mi chiedo: l'auto è importantissima per l'economia ma è alla vigilia di una svolta epocale. Chi difenderà le fabbriche italiane di FCA che valgono il 2 o il 3% del Pil e danno lavoro a 65.000 operai. Bisognerà lottare per avere piattaforme e tecnologie. Chi lo farà? Il sindacato così diviso? L'azionista? Il management? Il governo? Spero che il vuoto lasciato da Marchionne venga riempito. La mossa di FCA che prima ha proposto la fusione con Renault e poi ha lasciato il tavolo di trattativa con i francesi senza rimanervi impantanata ha qualcosa di marchionnesco. Di sicuro un ruolo chiave lo svolgerà John Elkann».

Torniamo al Marchionne manager: nel suo libro scrive che l'America gli ha regalato soddisfazioni gigantesche ma anche lo stop al progetto di fusione con GM.
«Mai un manager italiano è stato così considerato dai presidenti degli Stati Uniti, Obama e Trump. Obama visitò le fabbriche di Detroit che lui stava risollevando e gli fece complimenti commoventi. Ma Marchionne era di un'ambizione sconfinata. Voleva la fusione con GM per guidare il gruppo d'auto più grande del mondo. Aveva già in tasca la lettera con 60 miliardi di dollari per lanciare l'Opa. Ma constatò che l'establishment americano  non glielo avrebbe permesso. Fu il grande investitore Warren Buffett a spiegare ad Elkann che era una mossa da non fare. Marchionne proiettò il suo rammarico per non aver lanciato l’offerta su un mancato appoggio totale del suo azionista di riferimento».

Conseguenze?
«Quando nel 2015 capì che non gli avrebbero consentito di salire sul tetto del mondo ebbe un colpo psicologico. Sul piano manageriale trasferì tutta la sua immensa forza sull'obiettivo di azzerare il debito FCA. Obiettivo che raggiunse in tre anni, con una dedizione implacabile e stressando FCA fin nelle più piccole strutture. Ma non era la stessa cosa del capolavoro manageriale mondiale che aveva in mente: cioè la nascita di una nuova Toyota, più forte di Toyota, in grado di portare l'auto nel futuro».

Restano due curiosità. La prima: Marchionne è accusato d'essere più un finanziere che un industriale. Invece lui criticò spesso il capitalismo finanziario. Può chiarire questo aspetto?
«L'obiettivo di Marchionne era quello di creare un’azienda che superasse la rivoluzione tecnologica e durasse nel tempo ma anche estrarre valore per i suoi azionisti. La finanza non era mai fine a se stessa nel suo progetto».
 
E infine la malattia. In una delle ultime interviste rilasciata proprio a lei, Marchionne dice che fare bene il mestiere del manager dell'auto è "consuming".  Che effetto le fece quella parola? E quando capì che Marchionne era alla fine del suo viaggio?
 «Negli ultimi mesi diceva di essere stanco. Credevo fosse solo la fatica per portare a termine la sua opera e la consapevolezza che il suo ruolo da CEO stava per finire, non avevo capito fosse gravemente malato, l’ho saputo come tutti solo dal comunicato postumo dell’ospedale di Zurigo. Poi fu il silenzio del suo cellulare a mettermi in allarme: compresi che le cose non andavano bene. Speravo tanto di sbagliarmi».
 
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