Ilva, governo pronto allo scontro. La nazionalizzazione è più vicina

Ilva, governo pronto allo scontro. La nazionalizzazione è più vicina
di Giusy Franzese
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Martedì 16 Giugno 2020, 08:33

Il piano industriale presentato da ArcelorMittal per l'ex Ilva è «assolutamente inaccettabile»: più chiaro di così il premier Conte non poteva essere. «Non permetteremo che il progetto strategico venga snaturato» ha continuato il presidente del Consiglio. E quel progetto prevede una Ilva forte che ritorni a essere protagonista di primo piano della siderurgia europea, con una produzione che usi tutte le più innovative soluzioni green per arrivare ad un parziale decarbonizzazione.

Un progetto così non è compatibile con un basso livello produttivo (a 6 milioni di tonnellate si arriverà solo nel 2025) e meno che mai con un organico ridotto all'osso. Certamente non con un terzo in meno degli attuali dipendenti. «Abbiamo già le nostre risposte, abbiamo le idee molto chiare e non consentiremo che un progetto strategico per il Paese possa essere snaturato e reso non idoneo. Questo vale anche per gli esuberi che non riteniamo accettabili», ha scandito Conte.

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È un vero e proprio braccio di ferro quello che sta andando in scena tra governo e il colosso mondiale dell'acciaio che meno di due anni fa ha rilevato, tra gli altri in Italia, lo stabilimento tarantino che è il più grande impianto siderurgico d'Europa. Anche allora, dopo la gara vinta, non fu facile arrivare ad un accordo su livelli produttivi e numero di dipendenti. Molti furono i tira e molla e alla fine solo con il nuovo governo giallo-verde si siglò l'intesa che consentì la consegna delle chiavi degli stabilimenti da parte dei commissari straordinari ai Mittal. Poi la polemica sullo scudo penale abolito, le incursioni della magistratura, il mercato in crisi e le relazioni industriali interne mai decollate, portarono il gruppo franco-indiano a minacciare l'addio all'Italia.

I PATTI
Ma se l'accordo del 2018 è ormai acqua passata, non può esserlo anche quello del 4 marzo scorso faticosamente raggiunto per evitare la guerra giudiziaria. Il Covid purtroppo c'è stato e ancora circola. Ma l'impatto sul sistema economico e produttivo, per quanto profondo, non può trascinarsi per tre anni buoni, così da indicare un numero eccessivo di persone da gestire con la cassa integrazione straordinaria senza nessuna garanzia certa di rientro. Nel piano si prevede infatti l'impiego di 7.400 persone sugli attuali 10.700 quest'anno, per salire di appena 150 persone fino a tutto il 2025. Solo nel 2026 si tornerebbe a 10.700 ma soltanto - è ben specificato - se le condizioni della domanda di acciaio lo consentiranno e così la tecnologia scelta (la produzione con gli altoforni elettrici necessita di meno persone). Altro punto dolente è il rinvio a data da destinarsi degli investimenti previsti a partire dall'Afo 5. Per il governo sono tutte condizioni che non danno alcuna certezza e stravolgono i patti di marzo scorso.

LE PRESSIONI
A Taranto e al quartier generale del gruppo a Londra non si aspettavano una presa di posizione così forte. C'è sconcerto. Sono in attesa della convocazione del governo che ancora non arriva. Anche se, a onor del vero, in questi giorni tutto l'esecutivo è impegnato con gli Stati generali dell'economia e quindi forse c'è anche un problema di agenda piena. Non facile da interpretare nemmeno l'annuncio dato appena l'altro giorno da Palazzo Chigi sull'individuazione del veicolo per il coinvestimento statale nel capitale della società che gestisce gli impianti italiani (Ami), ovvero Invitalia. Che il governo volesse entrare nel capitale societario direttamente era cosa stranota e fa parte degli accordi di marzo, ma c'era tempo fino a novembre per decidere come, con chi e con quale entità. Perché dirlo ora? La classica tattica del bastone (piano inaccettabile) e della carota? Oppure è un segnale nei confronti di chi, soprattutto tra i Cinquestelle, spinge per una nazionalizzazione dell'Ilva? Tra i vertici aziendali inizia a serpeggiare che sia questa la vera intenzione .
 

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