Energia, già pronte sette centrali a carbone e via le limitazioni al Tap

Governo in pre-allerta, i vecchi impianti di nuovo attivi se Putin chiude i rubinetti

Energia, già pronte sette centrali a carbone e via le limitazioni al Tap
di Andrea Bassi
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Sabato 26 Febbraio 2022, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio, 00:10

Ormai è chiaro. La Russia, da un punto di vista finanziario e industriale, si è preparata per anni alla guerra. L’Occidente no. L’Italia meno di tutti. Ed è quella che rischia di pagare il prezzo più alto del conflitto tra Mosca e Kiev. Ieri, a sorpresa, durante il suo intervento alle Camere, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato della necessità di essere pronti a riattivare le centrali a carbone. La casa sta bruciando, ma questa volta il combustibile delle fiamme non è l’emergenza climatica portata da Greta Thumberg in piazza nei venerdì ambientalisti. È l’ordine mondiale, i rapporti tra le Nazioni. Quello che fino a ieri sembrava impossibile è diventato plausibile. Tutti gli scenari vanno valutati. Il governo italiano è stato costretto a porsi una domanda: cosa accadrebbe se da un giorno all’altro la Russia interrompesse i flussi di gas verso l’Europa? La risposta è raggelante. Venti giorni, forse un mese o poco più, di autonomia con le riserve strategiche, gli stoccaggi. Poi città e fabbriche rischierebbero di andare a singhiozzo, di spegnersi. «Uno scenario che al momento non c’è», dicono fonti del governo, quella di Draghi è stata solo un pre-allerta. Una preoccupazione più che legittima.

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IL MIX
Il mix energetico italiano è debole, fatto di rinnovabili ancora insufficienti e di troppo gas, metà del quale acquistato dalla Russia.

Se Vladimir Putin dovesse chiudere i rubinetti, o se l’Unione europea dovesse decidere tra le sanzioni di espellere Mosca dal sistema Swift dei pagamenti rendendo impossibile saldare gli acquisti di gas, con quale energia andrebbe avanti l’Italia? Il piano d’emergenza delineato da Draghi è chiaro. Primum vivere. Riattivare tutto il carbone possibile e potenziarlo. La Germania lo ha già fatto, del resto, per contenere gli aumenti delle bollette e sta persino ricominciando a estrarre lignite dalle miniere. 

In Italia ci sono ancora sei centrali attive: la “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), la centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, la centrale “Federico II” di Brindisi e la centrale “Grazia Deledda” di Portoscuso (Sud Sardegna), la centrale di di Monfalcone (Gorizia) e quella di Fiume Santo (Sassari). Poi c’è quella di La Spezia, chiusa qualche settimana fa. Cinque sono dell’Enel, che ha dato la disponibilità al governo a sostenere i piani di emergenza pur confermando la propria strategia di decarbonizzazione, tra cui quella di Brindisi e di Civitavecchia che possono dare un contributo importante. «Lo scorso anno», spiega Davide Tabarelli di Nomisma Energia, «il contributo del carbone sul fabbisogno energetico nazionale è stato del 6%. In passato era del 15%, realisticamente in tempi brevi si può arrivare al 10%». L’aumento della produzione di energia con il carbone potrà dare un contributo. Ma non basterà. 

IL SECONDO PASSAGGIO
Ci saranno sicuramente da tagliare i consumi. Il clima fino ad oggi è stato clemente, ma si potrebbe chiedere di ridurre le temperature dei riscaldamenti o, in estate, l’uso dei condizionatori. Anche alla Pubblica amministrazione. Ci sono poi le imprese “interrompibili”. Draghi ha parlato di «sospensioni nel settore industriale». Ci sono aziende come l’ex Ilva, le cartiere, i cementifici, che pagano una tariffa elettrica scontata in cambio della possibilità di interrompere temporaneamente le forniture in caso di emergenza. Ed ancora, c’è l’aiuto americano. Draghi ha ringraziato Joe Biden che ha deciso di dare una mano all’Europa mandando navi metaniere piene di gas liquido. «Tuttavia», ha detto, «la nostra capacità di utilizzo è limitata dal numero ridotto di rigassificatori in funzione». Per il futuro, ha aggiunto Draghi, è quanto mai opportuna una riflessione anche su queste infrastrutture. Una stoccata al “popolo del no” - leggi Cinquestelle - che nell’ultimo decennio ha impedito che si sviluppasse in Italia qualsiasi fonte alternativa di produzione elettrica. 

IL POPOLO DEL NO
Questo vale per esempio, per il Tap, il gasdotto che trasporta il metano azero fino alle coste del Salento, osteggiato duramente dai No Tap, diversi dei quali oggi siedono in Parlamento. L’anno scorso ha trasportato 8 miliardi di metri cubi, sette dei quali destinati all’Italia. Sarà subito portato a pieno regime, a 10 miliardi di metri cubi l’anno. Uno sforzo aggiuntivo, magari con l’ausilio dell’Eni, potrebbe essere chiesto all’Algeria. Più difficile, invece, che si possa aumentare l’import di gas libico. E poi c’è da estrarre in gas italiano dall’Adriatico perché, come ha ricordato Draghi, «il gas prodotto nel proprio Paese è più gestibile e può essere meno caro». Anche qui la produzione per le scelte miopi del passato è stata drasticamente ridotta con la conseguenza che ad estrarre il metano dai giacimenti dell’Adriatico sono la Croazia e il Montenegro, spesso “infilando” la loro cannuccia in giacimenti che si estendono al lato italiano. 

Dal 24 febbraio, quando i tank di Mosca hanno passato il confine Ucraino, il mondo è cambiato. Che fine farà in questo nuovo mondo la transizione ecologica che fino a ieri era in cima alle preoccupazioni europee e internazionali? Resta. «La risposta più valida nel lungo periodo», ha detto Draghi, «sta nel procedere spediti, come stiamo facendo, nella direzione di un maggiore sviluppo delle fonti rinnovabili». Insomma, adelante Pedro con juicio. Quel giudizio che più di una volta in Italia nel campo energetico sembra essere mancato.
 

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