La corsa dei prezzi non si ferma. Ormai si consultano le previsioni del TTF o dell’EEX, le due principali Borse energetiche europee, come 10 anni fa si guardava preoccupati agli sbalzi dello spread con i titoli pubblici della Germania. I derivati dell’energia elettrica a novembre segnano già quasi i 1.200 euro a Megawattora sull’EEX, contro i 421 euro di agosto, anche se finora gli scambi sono pochi. Di fatto l’attesa è che per fine anno i prezzi triplichino. Pesa anche la siccità che ha prosciugato diversi fiumi, come il Reno, rendendoli poco navigabili e impedendo così che possano transitarvi le navi porta carbone.
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Ma tale tendenza al rialzo dei prezzi, si chiedono gli operatori, resisterà? Avanti chi vuole scommettere contro.
GAZPROM
«Facciamo notare», ha sentenziato Gazprom, «che i prezzi spot in Europa hanno raggiunto i 2500 dollari per mille metri cubi. Secondo stime conservative se persiste una tale tendenza, i prezzi supereranno i 4mila dollari per mille metri cubi questo inverno». L’incremento dai valori attuali sarebbe quindi di almeno il 60% nel caso in cui la stima di Gazprom si rivelasse corretta. I prezzi spot in Europa hanno toccato i massimi storici a marzo sfiorando i 3900 dollari per mille metri cubi. L’aumento dei prezzi in Asia, la chiusura di impianti di produzione e di linee di trasporto in Norvegia per interventi di manutenzione programmati fino a fine agosto e l’incremento delle temperature accompagnato dal calo nella generazione di energia eolica in Europa, sono i fattori alla base della nuova fiammata.
E in Italia la domanda di gas secondo una simulazione di Snam e Terna (report appena pubblicato) rimarrà oltre i 60 miliardi di metri cubi l’anno fino al 2030. Inevitabile per rispondere ai target del 2050 della neutralità carbonica avere un mix basato su rinnovabili per l’elettricità, consistenti quote di biometano e idrogeno verde, senza rinunciare alle tecnologie di cattura e deposito e riutilizzo della CO2. Ma viste le proiezioni al 2030, resta la necessità di continuare ad avere ingenti forniture di gas. Inoltre per avere le ambizioni - come Italia - di hub del gas europeo che garantirebbero un mercato liquido e quindi migliori prezzi oltre a tariffe di trasporto competitive, l’unica strada è quella di diversificare attraverso l’importazione di gas liquefatto. Ma se si vuole decarbonizzare con rinnovabili e idrogeno, si possono evitare costosissimi investimenti per “idrogenodotti”. Sarebbe necessario riconvertire almeno una delle condotte che arriva da sud all’idrogeno. E quindi sarà necessario avere la linea adriatica libera in modo che il gas continui ad essere consegnato alle industrie del Nord. L’unica strada è usare il gas liquefatto, il Lng. C’è un grande potenziale nell’est del Mediterraneo che è rappresentato dal giacimento israeliano Levithian. Per assicurarsi quel gas o si fa un nuovo gasdotto (lungo e costoso) oppure si usa flessibilmente Lng, magari liquefatto in Egitto dove ci sono già due poli, con Eni protagonista. Si tratterebbe di impianti a due o tre giorni di nave da Ravenna non a quasi un mese come dal Golfo Persico, con evidenti vantaggi di costo e ambientali.
LA RISPOSTA
Le emergenze si chiamano tali perché scoppiano improvvisamente e hanno bisogno delle risposte più rapide possibili. E per flessibilità e tempi di attivazione, le navi rigassificatrici sono quelle più rapide. Non siamo nelle serie tv dove tutto succede magicamente usando il telecomando ma i tempi rapidi nella vita reale sono i 12 mesi, come nel caso di attracco in banchina di Piombino, perché i rigassificatori galleggianti possono garantire quantità importanti, sicurezza, flessibilità dei fornitori e dei prezzi. È indispensabile quindi una risposta rapida per un tema di disponibilità ma anche di prezzi, altrimenti il rischio è di lasciare le armi in mano a Putin che ha dimostrato di saperle usare. Per l’Italia è ancora più forte questo rischio. Se non c’è una linea chiara legata anche all’accelerazione dei progetti promossi da Eni e dal governo in Africa occidentale, rischiamo di perdere credibilità in quei Paesi. E sappiamo bene quale sia la sfera di influenza della Russia in Africa. Ma non c’è solo l’orso russo. Altri Paesi che a fronte della cesura Russa-Ucraina e dei pericoli dell’abbraccio stritolante del Dragone cinese, stanno riscoprendo la loro vocazione da ex potenza imperialista di fine 800 proprio nel continente africano. Un nome? La Germania.
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