ArcelorMIttal di Taranto: 8200 dipendenti e 19 miliardi di contributo al Pil

Così l'Italia si prepara a perdere l'acciaieria più grande in Europa
di Giusy Franzese
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Martedì 5 Novembre 2019, 08:44 - Ultimo aggiornamento: 08:53

Basta passare in rassegna i numeri principali per capire che cosa significa per l'Italia l'ex Ilva. È sostanzialmente un enorme serbatoio privato di occupati: anche dopo la dieta dovuta al passaggio al colosso franco-indiano, sono 10.700 i dipendenti diretti (8.200 nell'impianto di Taranto), che con l'indotto quasi raddoppiano. Il siderurgico pugliese resta la più grande acciaieria d'Europa: in teoria potrebbe arrivare a produrre 12 milioni di tonnellate di buon prodotto ogni anno: nel suo picco, con la proprietà dei Riva ne ha sfornati dieci milioni.
Poi sono arrivate le inchieste giudiziarie che hanno travolto i Riva e anche il resto. I livelli di produzione nell'arco di pochi anni sono scesi sotto i 5 milioni di tonnellate. I costi sono diventati troppo pesanti, i fornitori hanno accumulato crediti su crediti, la manutenzione e la sicurezza degli impianti è calata. Nell'ultimo periodo di amministrazione straordinaria l'ex-Ilva perdeva circa 30 milioni di euro ogni giorno.

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LA GARA
Poi, dopo una gara travagliata e lunghe polemiche, è arrivata ArcelorMittal, primo produttore mondiale dell'acciaio, e si è sperato in una storia diversa. Il piano industriale dei franco-indiani prevedeva la produzione di 6 milioni di tonnellate fino alla completa attuazione del piano ambientale (2023). Ma la guerra commerciale lanciata da Trump, la concorrenza del più economico e scadente acciaio cinese, la crisi dell'automotive, hanno sconvolto tutto e anche ArcelorMittal si è dovuta arrendere tagliando la produzione: quest'anno non si raggiungeranno nemmeno i cinque milioni di tonnellate (la previsione di ArcelorMittal di alcune settimane fa era di 4,7 entro fine 2019).



Nonostante ciò il siderurgico di Taranto resta l'impianto più grande d'Europa, in grado di fornire prodotti di altissima qualità e affidabilità. La presenza dell'Ilva è stata determinante per lo sviluppo dell'industria metalmeccanica del nostro Paese, che è poi quella che esporta di più. Rappresenta uno dei pilastri della nostra manifattura. La sua importanza va oltre i confini di Taranto e della Puglia. Secondo uno studio inviato dai ricercatori della Svimez all'allora ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio lo scorso anno, ai tempi della sofferta decisione se dare seguito alla gara oppure chiudere tutto, la produzione dell'Ilva così come illustrata nel piano industriale di Mittal (che prevedeva 6 milioni di tonnellate annue fino al 2023 a Taranto, più due milioni dagli impianti di Genova e Novi Ligure), avrebbe contribuito al Pil italiano nell'intero periodo per circa 19 miliardi, più di un punto di Pil (il 70% localizzato in Puglia; l'altro 30% nel resto d'Italia, prevalentemente nelle regioni del Centro-Nord). Al futuro dell'Ilva si lega così anche quello delle altre aziende siderurgiche non solo meridionali.

Nel solo Nord-est la filiera dell'acciaio, prodotta da impianti più piccoli, ha generato lo scorso anno un giro di affari di oltre 10 miliardi e più del 20% di valore aggiunto sul fatturato. «L'Italia non può fare a meno della produzione di acciaio, e senza gli stabilimenti ex Ilva, ci decapitiamo da soli», commenta un banchiere che ben conosce questo settore. Il nostro Paese è il secondo produttore e consumatore di acciaio in Europa, davanti a noi c'è solo la Germania. Siamo inoltre tra i primi consumatori pro-capite di acciaio al mondo. Nel 2018 abbiamo importato circa 14 milioni di tonnellate di acciaio (più della metà di quanto ne produciamo). Se venisse meno la produzione del gruppo ex Ilva, ci sarebbe un bel salto dell'import, con un aggravio non indifferente di tempi e costi per le nostre imprese. L'Italia sarebbe costretta a comprare l'acciaio dai paesi concorrenti, Cina e Germania in testa. L'impatto negativo sul Pil sarebbe disastroso: già tra il 2013 e il 2017 a causa del calo della produzione durante la gestione dell'amministrazione sono andati in fumo quasi 16 miliardi di euro. Non ci possiamo permettere una nuova Bagnoli o una nuova Termini Imerese.
 

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