Ripartenza o ristagno, il dilemma dell'Unione Europea

Ripartenza o ristagno, il dilemma dell'Unione Europea
di ANTONIO POLLIO SALIMBENI
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Martedì 22 Dicembre 2020, 12:26 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 05:36

«Il problema è che siamo nel bel mezzo della seconda ondata e che non possiamo vivere vite senza restrizioni fino a quando non ci sarà la vaccinazione di massa, per cui la sfida più grande è che questa avvenga più diffusamente possibile nel 2021 conciliando nel frattempo il controllo del virus con il sostegno dell’economia». Quello del capoeconomista della Bce, Philip Lane, è la sintesi del dilemma che ci trascineremo almeno per tutto il prossimo anno. Un dilemma la cui dimensione economica, sociale e anche psicologica è appena percepibile. Rispetto ad altri eventi di tipo catastrofico, per esempio le guerre, la crisi originata da una pandemia annichilisce famiglie e imprese ma non distrugge capitale produttivo; per contro, dopo una guerra la ricostruzione fa da stimolo a una ripartenza di norma particolarmente forte.

LA TRANSIZIONE ECOLOGICA

 «L’analisi delle pandemie nella storia mostra che i loro effetti macroeconomici persistono nel tempo, in media 40 anni a causa di un aumento dell’avversione al rischio e del risparmio cautelativo», ricordano i due economisti del CEPII di Parigi Isabelle Bensidoun e Jézabel Couppey-Spubeyran. Quarant’anni non è una previsione per l’oggi, naturalmente, tuttavia questi flash danno il senso della grande incertezza che circonda l’evoluzione dell’economia. L’enorme mobilitazione di risorse pubbliche degli Stati, dell’Europa e della Bce agisce da tampone, fa guadagnare tempo e assicura la stabilità (relativa) di redditi e imprese. Nello stesso tempo, questa l’ambizione, crea le condizioni per finanziare le transizioni ecologica e digitale considerate le nuove leve per la crescita. Cionondimeno, si teme che i comportamenti delle imprese e delle famiglie restino a lungo improntati alla diffidenza e ampi settori sociali restino esclusi dalla ripresa avviatasi da metà 2020 e poi di colpo smorzatasi dall’autunno: potrebbero rafforzare «la tendenza alla stagnazione secolare affermatasi dopo la crisi finanziaria mondiale», dicono al Centre d’Ètudes Prospectives et d’Informations Internationales. Tuttavia con i vaccini all’orizzonte c’è meno pessimismo, anche se resta alta la prudenza per le misure di confinamento e controllo che continueranno a pesare sull’attività economica. La Bce indica una caduta del Pil nell’area euro nel 2020 del 7,3%; nel 2021 è attesa una crescita del 3,9%; nel 2022 del 4,2%; nel 2023 del 2,1%, anno in cui il Pil si troverebbe al di sopra del livello pre-crisi. Ciò però nell’ipotesi di una graduale soluzione della crisi sanitaria nel 2021, dell’attuazione puntuale di Next Generation Eu, di politiche fiscali nazionali ancora espansive e di una ripresa a livello mondiale. Il Pil, insomma, tornerebbe al livello di fine 2019 solo a metà 2022. Ma non tutti gli Stati arriveranno al traguardo nella stessa misura e negli stessi tempi: la Commissione a novembre indicava che solo Germania e Polonia tra le grandi economie avrebbero raggiunto i livelli pre-crisi nel 2022.

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L’OMBRELLO DELLA BCE

 Un’idea più precisa del ritorno a una situazione più “normale” è implicita nelle ultime decisioni della Bce: il bazooka monetario, con l’aggiunta di 500 miliardi di euro per un totale di 1.850 miliardi tra acquisti di titoli sovrani e delle imprese (netta prevalenza dei primi) è stato esteso a marzo 2022.

Il capitale rimborsato suoi titoli in scadenza acquistati sarà reinvestito sino a fine 2023. In tal modo la Bce amplia l’ombrello protettivo sul mercato del debito degli Stati che ha raggiunto vette preoccupanti. Finché l’ombrello è aperto, il problema della stabilità del debito pubblico degli Stati più esposti, Italia in primo luogo, è accantonato. La transizione a una fase di crescita stabile sarà perciò lunga. La presidente Bce Christine Lagarde indica che mai come ora gli economisti di Francoforte «devono essere molto attenti alla letteratura sanitaria»: solo quando sarà raggiunta una sufficiente immunità di gregge a fine 2021 «l’economia potrà riprendere in condizioni più normali». Anche per l’Ocse i prossimi 6-9 mesi di convivenza con il virus non saranno facili. In Europa il tema politico del controllo del debito una volta che la crisi sarà alle spalle, verrà affrontato in primavera quando si comincerà a discutere sulla riforma delle regole di bilancio, comunque sospese per tutto il 2021. Discussione non facile, data le visioni opposte del Nord e del Sud sulle prospettive del Patto di stabilità. Se l’Italia sfrutterà bene i 209 miliardi di Next Generation Eu ciò potrebbe aprire la strada a nuove prospettive politiche di maggiore integrazione. In caso contrario il Recovery Fund resterà un espediente congiunturale. Certamente l’esito della scommessa interna inciderà sulle future partite politiche.

L’AZZARDO MORALE

 Il punto è che il tema del debito interseca due ambiti. Il primo è quello del modo in cui saranno gestiti i debiti eccessivi delle imprese che hanno buone prospettive di mercato e non erano in crisi prima della pandemia: andrà trovato un compromesso tra “azzardo morale” (salvare chi ha preso troppi rischi) e necessità di preservare imprese “indispensabili per il bene” dell’economia, come ha indicato il rapporto Draghi per il G30. Il secondo è come evitare un pericoloso accumulo di crediti bancari deteriorati: secondo il responsabile della vigilanza Bce, Andrea Enria, c’è il rischio raggiungano un livello di 1.400 miliardi, ben di più di quello dovuto alla crisi finanziaria e del debito sovrano. L’unica via di uscita, come è ovvio, sarebbe una crescita a ritmi superiori a quelli pre-crisi e non basteranno certamente le leve interne: Green Deal ed economia digitale daranno effetti nel periodo medio-lungo. Il divario rispetto al ritmo della ripresa americana resterà: nel 2020 il Pil Usa è calato del 3,7%, quello dell’area euro del doppio; nel 2021 gli Usa recupereranno la perdita, l’Eurozona ne recupererà solo metà. D’altra parte dal 2008 al 2019 gli Usa sono cresciuti in media dell’1,85% l’anno, l’area euro dello 0,82%. E non aiuta la debolezza del dollaro, vera manna per la presidenza Biden: a fine novembre l’euro ha sfondato quota 1,21 sul biglietto verde e non succedeva da due anni e mezzo. Anche la Bce è preoccupata. Per fortuna che il barile di petrolio è tornato sopra 50 dollari, almeno il tasso di inflazione non subisce ulteriori pressioni al ribasso.

EUROPE FIRST

 Si scommette sulla presidenza Biden che, recuperando il senso storico-politico delle relazioni amichevoli con l’Europa, segnerà lo stop al ripiego protezionistico, tuttavia c’è molta cautela in entrambe le sponde dell’Atlantico: la Ue punta a offrire mille occasioni per riprendere la tela di relazioni commerciali organiche distrutte da Trump, ma sa che non potranno essere rieditate suggestioni di mega partnership. Biden è molto cauto su questo: American First resterà sia pur diversamente declinata e praticata proprio nel momento in cui si delinea una circostanziata Europe First. L’attenzione americana sarà assorbita dalla Cina più che dall’Europa. Peraltro, la politica climatica da un lato e dall’altro la stretta europea sui colossi digitali (innanzitutto Usa) sul piano della regolazione e sul piano fiscale (webtax) non giocano certo a favore di una riconciliazione. In ogni caso, il cambiamento di atmosfera e di prospettiva da parte americana crea un contesto distensivo opposto a quello dell’era Trump. La Ue sta perseguendo con determinazione politiche che ne rafforzino l’autonomia strategica per affermare una sovranità europea: dalla farmaceutica alle materie prime critiche, dal digitale alle tlc di frontiera (5G). Il rafforzamento del ruolo globale dell’euro è un fattore decisivo. È il nuovo mantra per reagire allo spostamento altrove del baricentro economico globale: tra il 2016-2020 il 53% degli investimenti industriali nel mondo è stato realizzato in Asia, il 20% negli Usa, il 13% in Europa. Tra le incertezze c’è la Brexit, naturalmente, ma comunque vadano le cose è stato chiaro fin dall’inizio che una uscita hard, senza accordo, comporterebbe costi maggiori per i britannici che per i Ventisette essendo la Ue il maggior partner commerciale per il Regno Unito, cui è destinato il 43% di tutte le esportazioni inglesi. 

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