Stato imprenditore, torna la mano pubblica con i sostegni per Ita-Alitalia e l'acquisto di Aspi

Stato imprenditore, torna la mano pubblica con i sostegni per Ita-Alitalia e l'acquisto di Aspi
di Roberta Amoruso Andrea Bassi
8 Minuti di Lettura
Martedì 22 Dicembre 2020, 12:26 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:29

Non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. L’aforisma, a volte attribuito a Flaiano, altre a Prezzolini, è uno dei tratti distintivi del carattere nazionale. Prendiamo l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale. La sua nascita porta la data del 24 gennaio 1933 e, pochi forse lo sanno, vide la luce come un ente pubblico temporaneo. Doveva essere lo strumento per far fronte alla gravissima crisi industriale e bancaria dei primi anni Trenta aggravata dalla deflazione (e qui si potrebbe citare un altro aforisma: corsi e ricorsi storici). Il 27 giugno del 2000, esattamente sessantasette anni dopo la sua fondazione, l’Istituto per la ricostruzione industriale fu messo in liquidazione. In mezzo c’è la storia industriale e politica italiana, con le sue virtù e i suoi tanti vizi. Materia ormai per gli storici. Se non fosse che, dopo l’ondata delle privatizzazioni degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, lo Stato rimette pesantemente la sua mano nel sistema industriale e produttivo italiano. Diciamo la verità. Del tutto non l’ha mai tolta. Ha tenuto saldamente il controllo di alcuni asset strategici come le società energetiche Eni ed Enel, quelle della difesa come Leonardo, le casseforti del risparmio privato, come la Cdp e le Poste, i trasporti con le Ferrovie, la tv pubblica. Ma il vento da qualche anno è cambiato. Le privatizzazioni sono state messe completamente nel cassetto. Da tempo lo Stato non vende più nessuna delle sue partecipazioni ma, anzi, ha iniziato a ricomprare. Con la pandemia, con le crisi aziendali, con le deroghe concesse dall’Unione europea, fino a qualche tempo fa severo censore di qualsiasi salvataggio pubblico, questo processo ha subito una fortissima accelerazione. Lo Stato, insomma, sta tornando padrone. O imprenditore, come sostiene l’ultima vulgata politica. E il 2021, da questo punto di vista, potrebbe essere l’anno della svolta decisiva. Se si guardano i numeri, in realtà, fanno già una certa impressione. Li ha messi in fila, con un lavoro certosino, la società di consulenza Comar. Le imprese industriali controllate dallo Stato e dai suoi bracci operativi, Cassa depositi e prestiti e Invitalia, sono 32 (che diventano diverse centinaia se si considerano le controllate delle capogruppo). Alla fine del 2019 il loro fatturato è stato di 241,4 miliardi di euro, gli utili hanno superato 26,8 miliardi, gli investimenti complessivi sono vicini a 35 miliardi e danno lavoro a oltre 471 mila persone. Calcolando tutte le società italiane con più di 250 addetti, le 32 società controllate dallo Stato (che sono solo una parte delle oltre 6 mila partecipazioni pubbliche complessive), rappresentano quasi un quarto dei ricavi totali e un decimo degli occupati. Le undici società quotate che sono nel portafoglio dello Stato, rappresentano il 30% della capitalizzazione di Borsa. Nel 1992, agli albori della stagione delle privatizzazioni, la galassia delle società dell’Iri fatturava 76 mila miliardi delle vecchie lire che, riportate ai valori di oggi, equivalgono a 65,8 miliardi di euro. Se si vuol davvero capire come il vento è cambiato, basterebbe esaminare le principali operazioni nelle quali lo Stato, direttamente o tramite i suoi due satelliti Cdp e Invitalia, è coinvolto. In attesa di vedere dove andranno a finire i 44 miliardi di dotazione del fondo Patrimonio Rilancio, qualche centinaio di operazioni verranno messe a terra nel 2021 coinvolgendo una platea potenziale dei richiedenti di circa un migliaio di aziende.

P.A e intelligenza artificiale: rivoluzione al via

Digital divide addio, obiettivo Recovery Fund: burocrazia amica con la digitalizzazione

 

I DOSSIER APERTI

Una vecchia sfida, tornata indietro con gli interessi da tre anni a questa parte, è Alitalia.

Nel 2006 il governo Prodi aveva imboccato la strada della privatizzazione con un salvataggio “di mercato” dal fallimento. Ma l’uscita parziale dello Stato nel 2008 è stata solo l’inizio di un nuovo calvario. Hanno fallito i “Capitani coraggiosi” della Cai chiamati da Silvio Berlusconi, accollandosi anche l’AirOne di Carlo Toto. E non è riuscita nell’impresa rilancio nemmeno Etihad, entrata nel 2014 e messa da parte nel 2017 con l’avvio dell’amministrazione straordinaria. Da tre anni si cerca una soluzione “di mercato” che non c’è, a suon di prestiti di Stato e commissari straordinari. E ad aprile dovrebbe decollare la Newco Ita-Alitalia rinazionalizzata. Ma anche il tandem Lazzerini-Caio lo sa bene: senza un’alleanza internazionale sarà difficile andare lontano. E con la Iata che prevede un ritorno al traffico pre-covid soltanto nel 2023, non sarà facile per i nuovi manager mettere realizzare un piano industriale degno di tale nome, figuriamoci un’alleanza. Si tratta di «navigare a vista» con «un piano dinamico», dice Lazzerini. La nuova compagnia avrà gli altri 3 miliardi messi sul tavolo dal governo e partirà con metà flotta (52 aerei) e circa 5.500 dipendenti contro i 10.300 attuali. Il resto dovrebbero rimanere nella vecchia compagnia in amministrazione straordinaria, con ammortizzatori sociali e scivoli pensionistici allo studio. Per non dire degli 150 milioni che il governo dovrà sborsare per tenere in piedi il vettore in questa fase. Intanto, per la controllata Mps il Tesoro punta tutto su un matrimonio con Unicredit già a inizio anno, al massimo in primavera. Un affare da accompagnare con una corposa ricapitalizzazione, capace di assorbire anche i 2 miliardi di perdite attese nel 2002 e mettere al riparo da nuovi richiami della Bce e bacchettate dell’Ue sugli aiuti di Stato. Ma anche su questo fronte, l’esito non può essere dato per scontato. Anzi. Unicredit sarebbe disponibile a farsi avanti. Vero. Purché, però, si passi da una operazione neutra sul capitale. E su questo tocca ancora al governo tirare fuori dal cilindro una norma sulle Dta (i crediti di imposta) che può valere 3 miliardi per Mps.

LA SFIDA DI TARANTO

 La partita Autostrade, della rete unica di AccesCo e di Borsa Italiana sono invece affidate al braccio operativo Cdp. Mentre toccherà al satellite Invitalia gestire la grana dell’Ilva insieme ad ArcelorMittal. Un ritorno a casa per il siderurgico di Taranto, il primo tassello a passare sotto l’ombrello pubblico dell’Iri, alla sua nascita. Con molte incognite, però. Dal 2012 al 2017 si sono avvicendati all’Ilva ben cinque commissari. Ed è anche per le alterne vicende politiche - non solo per la crisi dell’acciaio - che non si è riusciti a dare una rotta a un’azienda che ha ancora potenzialità e fa parte di un settore strategico per il nostro Paese. Raddoppiare a Taranto la produzione nei prossimi anni, ma anche riattivare investimenti, bonifiche e riqualificazione, salvando anche i lavoratori (10.700 tra tutti gli stabilimenti), è la nuova ambizione all’orizzonte, puntando verso la produzione green, a idrogeno. Ci crede davvero Invitalia, che spera di poter coinvolgere anche altri soci privati nell’impresa: «Chissà, potrà prendere vita da Taranto un piano nazionale dell’acciaio verde», dice l’amministratore delegato Domenico Arcuri. Si vedrà. Intanto la tabella di marcia prevede l’iniziale partecipazione di Invitalia in Am InvestCo, la società controllata da ArcelorMittal che gestisce le acciaierie, al 50% (salirà al 60% nel 2022). Un primo ingresso da concludere entro il 31 gennaio 2021 e subordinato all’ok dell’Antitrust Ue entro la stessa data. Per Cdp, invece, la partita più urgente da chiudere l’anno prossimo è quella che porta all’uscita della famiglia Benetton, quindi di Atlantia, da Autostrade per l’Italia. Salvo ulteriori slittamenti, la cordata Cdp-Blackstone-Macquarie dovrebbe presentare un’offerta vincolante per l’88% di Aspi entro gennaio. Ma il realtà c’è tempo fino a luglio prossimo per la revoca della strada alternativa (scissione della quota con quotazione) voluta comunque dal cda di Atlantia. In questo caso, per la Cassa si tratta di gestire una gallina dalle uova d’oro, ma la sfida è farlo meglio di come l’hanno fatto i Benetton, tra manutenzioni mancate e la tragedia del Ponte Morandi. Senza dimenticare che avere autostrade senza pedaggi adeguati è una pura illusione, considerati gli investimenti necessari.

I NODI DELLA RETE

 Anche l’ingresso di Cdp nell’operazione Euronext-Borsa Italiana (con il 7,3%) rientra appieno nel nuovo Dna sbandierato dalla Cassa quale «sostegno alle infrastrutture strategiche del Paese con una prospettiva di lungo termine». Nella speranza che l’operazione garantisca gli investimenti necessari nell’infrastruttura tecnologica e dia alla Borsa il giusto spazio nello sviluppo del gruppo europeo. Di sicuro anche la prima tappa per la realizzazione della rete unica in fibra nazionale di AccesCo sarà fissata entro marzo 2021, con l’obiettivo di fondere FiberCop (Tim, Kkr e Fastweb) e Open Fiber (Cdp ed Enel). Dopo 15 anni dal “Progetto Rovati” di scorporo della rete, potrebbe essere la volta buona per creare una vera autostrada del futuro. Anche perché l’innovazione è la chiave per accedere alla ripresa che verrà. E chissà se guardare all’esperienza passata potrà essere utile. Nello schema a tre teste Tesoro-Cdp-Invitalia, sarà dunque la good company Cdp a prendere gli asset più prestigiosi. A Invitalia le missioni più difficili con l’obiettivo di dare, comunque vada, un placebo all’occupazione. È un po’ come rivedere all’opera la vecchia Iri, con Cdp; e il reparto rianimazione della vecchia Gepi, con Invitalia. Accostamenti che le società interessate respingono risolute, mentre i contribuenti incrociano due volte le dita sperando che abbiano ragione. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA