Non c’è solo il profitto, si allarga il fronte delle “società benefit”

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di Marco Barbieri
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Mercoledì 3 Novembre 2021, 14:08 - Ultimo aggiornamento: 30 Novembre, 20:04

Tra un mese, l’assemblea dei soci di Reale Mutua deciderà sul cambio dello statuto sociale, così come lo ha approvato il cda lo scorso 18 ottobre.

La compagnia di assicurazione potrebbe diventare “società benefit”, cioè potrebbe introdurre nel suo statuto, oltre all’obiettivo di assicurare il profitto ai soci/azionisti, un secondo obiettivo sociale: il perseguimento del bene comune per gli stakeholder. Non si tratta di una formalità. La possibilità di derogare al Codice civile (che impone agli statuti societari l’obiettivo di massimizzare il profitto per gli shareholder) è stata introdotta dalla Legge di Stabilità del 2016. «Per gli amministratori della società si tratta di un vincolo e di un obiettivo sul quale vengono misurati dalla proprietà. Senza questa norma il perseguimento di obiettivi diversi, anche se socialmente meritori, potrebbe essere sempre censurabile dagli azionisti», spiega Massimo Mercati, ad di Aboca, una delle imprese capofila del “movimento” delle società benefit in Italia. Oggi se ne contano più di 1.400, secondo quanto dice l’associazione che le rappresenta, Assobenefit, presieduta da Mauro Del Barba, il parlamentare “padre” della norma, che si adopera per aggiornare il censimento.

IL MOVIMENTO

 La nuova attenzione alla sostenibilità – sociale e ambientale – sta accendendo le luci non più solo sulla qualità inderogabile del prodotto, ma sulla qualità dell’impresa. «Il consumatore orienterà sempre più le sue scelte di prodotto in funzione dell’impegno per il bene comune profuso dall’impresa»: per Mauro Del Barba la strada è senza ritorno. Per Giulia Gregori, responsabile Pianificazione Strategica e Comunicazione Istituzionale di Novamont, «sta crescendo un movimento di aziende che si riconoscono nei valori sociali che consentono di perseguire, insieme al profitto, anche un beneficio comune per l’ambiente, la comunità e il territorio in cui agisce l’impresa. Oltre al bilancio civilistico le società benefit sono chiamate a compilare una relazione di impatto per documentare il conseguimento degli obiettivi di bene comune, alla stessa stregua degli obiettivi di profitto». Molta strada è stata fatta in questi anni. E non è più un tema al confine con il Terzo settore.

Non è più solo un argomento di marketing o di moda. «È l’affermazione della fine del modello unico di impresa, così come è stata vissuta e insegnata nelle business school», aggiunge Del Barba. «L’idea l’ho presa da uno studio della Rockfeller Foundation nel 2007, tra i primi a porre in maniera sistematica la questione dello sviluppo economico sostenibile. La legislazione in una trentina di Stati degli Usa ha prodotto una normativa che noi abbiamo proposto in Italia, prima fra tutti i Paesi europei, e che dopo cinque anni la Francia ci ha copiato, con la legge sulle “societé à mission”. È l’inizio di un nuovo paradigma». Un primato italiano che affonda le sue radici nella tradizione delle imprese familiari, da sempre attente al territorio e alla comunità di riferimento. La tradizione di Adriano Olivetti, che per anni è sembrata circoscritta a un perimetro di anime belle, emarginate dalla finanziarizzazione forsennata dell’impresa. «L’impresa benefit è come dovrebbe essere l’impresa – aggiunge Mercati di Aboca – a differenza di attività di filantropia, o di Csr, la società benefit propone un deciso cambio di paradigma: l’impresa è internamente vincolata a perseguire obiettivi di bene comune. L’impresa ha quindi una finalità sociale oltre a quella di profitto».

GLI ESEMPI

 Una “rinascita” della natura dell’impresa che coinvolge ormai grandi aziende, da sempre attente alla “qualità sostenibile” dei propri prodotti, e che proprio perché fortemente internazionalizzate hanno coltivato questa sensibilità. Abbiamo citato Novamont. Ma dobbiamo rammentare anche Illy. «La sostenibilità, così come la digitalizzazione, oggi è un obiettivo da perseguire, ma è destinata a diventare un elemento embedded della governance aziendale. Oggi è anche un obiettivo reputazionale, domani sarà un implicito dovere di ogni impresa», spiega Massimiliano Pogliani, ad di Illycaffé. La trasformazione in società benefit per Illy segue la certificazione di B-Corp, un riconoscimento internazionale rilasciato dall’ente non profit B Lab. Per l’ottenimento della certificazione le imprese devono superare 80 punti su una scala da 0 a 200 del “Benefit Impact Assessment”, un benchmark sviluppato da B Lab, che permette di valutare l’impatto aziendale in modo quantitativo e rigoroso. Questa soglia rappresenta il punto di pareggio tra quanto l’azienda prende dalla società e dall’ambiente rispetto a quanto restituisce, passando da un modello puramente estrattivo a uno generativo. Spesso società benefit e B Corp vengono confuse: nel primo caso si tratta di uno status giuridico che le aziende possono adottare, nel secondo di una certificazione condotta su base volontaria. Ad ogni modo, in entrambi i casi parliamo di imprese che hanno scelto di impegnarsi – non solo a parole – sulla strada del bene comune. 

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