Digital divide addio, obiettivo Recovery Fund: burocrazia amica con la digitalizzazione

Luigi Gubitosi, amministratore delegato di Tim
di Francesco Malfetano
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Martedì 22 Dicembre 2020, 12:27 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:29

Dopo anni di promesse sul digitale, in Italia sembra finalmente essere arrivata l’ora dei fatti. Per forza di cose il 2021 ha infatti bisogno di essere un giro di boa tanto per lo Stato e la pubblica amministrazione, quanto per le imprese e i cittadini. Un anno che deve essere capace di condensare al suo interno l’addio non solo ad una burocrazia quasi inscalfibile dalle folate dell’innovazione - e quando l’ha fatto non sempre le cose sono andate per il meglio (per informazioni chiedere dei “click day”) - ma anche ad intere porzioni di territorio letteralmente “sconnesse” dal resto della Penisola oppure anche ad un sistema educativo che non ha affatto compreso l’importanza dei nuovi strumenti. Sfide che finalmente abbiamo iniziato ad affrontare e che ora possiamo lasciarci alle spalle. Non è un caso se l’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, ripete ormai già da qualche mese - la prima volta lo ha fatto proprio al Messaggero, intervenendo a ottobre al webinar “Obbligati a crescere” - che «dal 2021 inizieremo a chiudere il digital divide, regione per regione». Quest’anno «è stato fatto un grandissimo lavoro sulle aree bianche» ha aggiunto, ricordando come «la rete non ha funzionato dove non c’era. Al 31 agosto noi siamo al 65% e arriveremo ai tre quarti delle aree bianche entro fine anno». Non resta che augurarsi che la strada sia ancora questa, senza duplicazioni di rete e investimenti o lotte di potere.

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I PASSI IN AVANTI

D’altronde il percorso che ci aspetta ora appare sì tortuoso, ma non più impossibile. A più di 10 mesi dall’inizio dell’emergenza Covid infatti, la “bella addormentata” Italia si è risvegliata agli albori del 2021 con nuove consapevolezze. Attenzione però, non basta una video-call pixelata per sentirsi a posto, siamo ancora un popolo di analfabeti digitali. Non più meritevoli della posizione numero 25 (su 28 Paesi) nell’indice Desi - un complesso sistema di misurazione dei rapporti virtuali tra economia, società, pubblica amministrazione redatto dalla Commissione Europea ogni anno - ma neanche pronti a sentirci parte integrante di quello che consideriamo “il futuro”. Mesi di smart working, e-learning, webinar, e-commerce, tracking, live, golden power, food delivery e chi più ne ha più ne metta (purché rigorosamente in inglese), hanno piegato certe convinzioni, spazzato via altre convenzioni e regalato - c’è da dirlo - anche nuovi timori. Chi immaginava, solo nel 2019, che una discussione sulla privacy di una app andasse avanti per tre mesi, paralizzando il Paese? E chi invece che bastassero 150 euro per convincere gli italiani che i pagamenti digitali non sono il male assoluto?

OPERAZIONE RISORGIMENTO

Qualche passo in avanti è stato fatto. Lo certifica anche una ricerca condotta dal Censis insieme al Centro studi della Tim nell’ambito dell’Operazione Risorgimento Digitale, che ha aggiornato la fotografia a questi mesi. Gli aperitivi online, i “ce la faremo” in diretta sui social e tutto il resto non solo hanno portato a un’impennata senza precedenti nell’utilizzo della rete fissa, con picchi del 90%, ma ne hanno anche rivelato le potenzialità: 8 italiani su 10 hanno acquisito basilari competenze digitali, il 75% della popolazione ha utilizzato Internet con regolarità, il traffico per servizi di video-comunicazioni è aumentato di circa 8 volte e quasi 9 italiani su 10 hanno potuto continuare a svolgere le loro attività a distanza grazie alla connessione internet. Nuove abitudini che se consolidate, in base alla proiezioni di Censis e Tim, genererebbero idealmente una crescita del 15% in termini di competenze digitali, facendo balzare l’Italia al 19° posto nella classifica Desi, 6 posizioni più avanti rispetto all’attuale pagella digitale europea. Dietro a questo consolidamento però si nasconde l’inghippo più grande. Se è vero che noi italiani siamo bravissimi a sprecare le occasioni per poi provare a recuperare fischiettando, questa volta dovremo muoverci diversamente. Non solo perché rischiamo di essere ancora letteralmente divorati dalla concorrenza di altri Paesi, ma anche c’è il rischio di essere cannibalizzati da aziende straniere a cui poco importa - giustamente, sia chiaro - delle nostre prerogative.

I FONDI NON MANCANO

A disposizione ci sono i 48,7 miliardi di euro stanziati nel Recovery Plan (la bozza) per digitalizzazione e innovazione ma le necessità sono davvero numerose. Impossibile improvvisare. Non basta annunciare che dal 28 febbraio l’accesso a tutti i servizi della pubblica amministrazione avverrà esclusivamente attraverso le credenziali Spid e la Carta d’identità elettronica. Serve anche agire preventivamente per evitare che centinaia di persone si accalchino davanti agli sportelli postali per ottenere l’identità digitale. Le alternative ci sono? Bene, e allora il problema da risolvere è: perché non vengono usate?

INTEROPERABILITÀ

E ancora, non è più accettabile che le infrastrutture digitali e i servizi della pubblica amministrazione oggi prevedano 11 mila data center per 22 mila enti in tutta la Penisola. E non lo è ancora di più che il 95% di questi presenti carenze nei requisiti minimi di sicurezza o efficienza e comporti una spesa di manutenzione stimata in oltre 7,5 miliardi all’anno. Serve dunque una razionalizzazione e serve soprattutto un’interoperabilità, da subito e non dal 2026 (orizzonte di scadenza del Next Generation Eu). Così come servono procedure e patti chiari per proseguire con l’implementazione della tecnologia 5G, per lavorare sul serio a servizi innovativi come la riforma digitale della Giustizia o per indirizzare diverse decine di migliaia di studenti italiani verso percorsi formativi che forniscano competenze nei settori che oggi offrono lavoro. È una sfida è vero, ma dopo questo 2020 non possiamo averne paura.

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