La pensione-miraggio per i nati dopo il 1970: un sistema di garanzia contro il rischio povertà

La pensione-miraggio per i nati dopo il 1970: un sistema di garanzia contro il rischio povertà
di Luca Cifoni
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Mercoledì 3 Novembre 2021, 15:06 - Ultimo aggiornamento: 4 Novembre, 14:08

Un cantiere di riforma aperto ormai da oltre un trentennio e che ancora non è chiuso. Il nuovo tavolo sulle pensioni che dovrebbe essere convocato all’inizio dell’anno prossimo è al momento una formula di compromesso, per allontanare o quanto meno rinviare lo scontro diretto tra governo e sindacati sulle misure previdenziali incluse nella legge di Bilancio appena approvata.

Il tema di fondo è lo stesso che si poneva negli anni Novanta: come trovare un equilibrio tra l’età di uscita dal mondo del lavoro e la tenuta di lungo periodo dei conti pubblici. Da allora, milioni di italiani hanno avuto accesso al pensionamento, mentre sono diventati un po’ più vecchi coloro che all’epoca venivano indicati come i giovani: ovvero, approssimativamente, i nati dagli anni Settanta in poi, quelli che la riforma Dini ha assoggettato interamente al sistema di calcolo contributivo e che inizieranno ad andare in pensione intorno al 2040.

LA PROSPETTIVA

Sulla carta, governo e sindacati dovrebbero parlare anche di loro oltre che dei pensionandi e del modo con cui rendere graduale il ritorno alle regole della legge Fornero. Il problema che si pone è noto e si chiama in gergo tecnico “adeguatezza delle prestazioni”. Si tratta di fare in modo che quando per queste generazioni arriverà il momento di lasciare il lavoro (a un’età più alta di quella dei genitori) il reddito pensionistico sia sufficiente a sostenere una vecchiaia dignitosa. Da tempo è al centro della discussione il concetto di “pensione di garanzia” ma i numeri dicono che per migliorare la previdenza di domani serviranno interventi e tutele anche sul lavoro di oggi. Uno degli indicatori-chiave per misurare l’adeguatezza delle prestazioni è il tasso di sostituzione, il rapporto percentuale tra l’ultimo reddito da lavoro e la prima rata di pensione. Naturalmente per calcolarli in misura media in relazione ai decenni futuri bisogna fare una serie di ipotesi sull’evoluzione dell’economia e in particolare delle retribuzioni, oltre che su età e anzianità contributiva degli interessati. È questo l’esercizio svolto ogni anno dalla Ragioneria generale dello Stato nel suo rapporto sulle “tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”.

IL MECCANISMO

Si parte dal passato recente e dal presente. Un lavoratore che ha iniziato a ricevere la pensione di vecchiaia nel 2010, con 38 anni di contributi, aveva un assegno lordo superiore al 70 per cento sia che fosse dipendente sia autonomo. Per quest’ultima categoria, più colpita dal passaggio al sistema contributivo, un calo vistosissimo del tasso di sostituzione (oltre quindici punti) c’è stato già nell’arco di dieci anni mentre il dipendente ha sostanzialmente mantenuto le proprie posizioni. Anche lui però sperimenterà una sensibile riduzione nei prossimi anni, scendendo dal 71,8 per cento al 64,6 nel 2030 e al 58,3 nel 2040. Anno nel quale l’autonomo sarà molto più sotto, al 44,7. Il ridimensionamento del reddito nel passaggio dalla fase lavorativa a quella della pensione ha paradossalmente un risvolto positivo: si abbassa anche il prelievo fiscale, che funziona in modo progressivo. E dunque se si guarda all’importo netto, che è l’elemento più rilevante, l’attuale 81,6 per cento del privato scende al 68,3 e il 77,4 dell’autonomo (già ampiamente decurtato rispetto al 2010) va al 65,4. Il che equivale a un ridimensionamento dell’assegno (quello futuro rispetto a quello attuale) di 15 punti o anche di più. La differenza non è da poco, ma c’è una notizia ancora più brutta: i 38 anni di versamenti contributivi della simulazione sono un requisito abbastanza esigente, ma ancora di più lo sarà in futuro. Rischia insomma di essere irraggiungibile per chi ha lavorato per una parte consistente della propria vita in modo precario o intermittente e quindi dovrebbe accontentarsi di tassi di sostituzione ben più bassi. Un problema ben noto anche agli autori della riforma Dini, che hanno infatti previsto un doppio sbarramento: da una parte non permettendo l’accesso alla pensione anticipata a chi matura un importo inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale, dall’altra facendo lavorare fino a 70 anni chi all’età della vecchiaia non arriva nemmeno a 1,5 volte l’assegno sociale. Il rimedio tradizionalmente indicato contro il pericolo di pensioni povere è il ricorso alla previdenza complementare, che però non è esattamente una soluzione accessibile per chi già si trova in difficoltà, anche se in linea di principio il trattamento integrativo dovrebbe appunto colmare le lacune di quello obbligatorio attingendo ai rendimenti in vigore sul mercato.

I “PUNTELLI”

Ecco perché si parla – per ora in modo abbastanza astratto – di pensione di garanzia e più in generale di come puntellare le carriere dei giovani, ma anche di quelli che ormai tanto giovani non sono pur essendo lontani dal traguardo della pensione. Anche perché gli squilibri generazionali sono destinati ad acuirsi: oggi ci sono circa tre persone in età lavorativa (15-65 anni) per ogni ultrasessantaquattrenne, nel 2040 ce ne saranno in media meno di due. E nel nostro sistema previdenziale a ripartizione – è sempre bene ricordarlo – le pensioni si pagano con i contributi di chi lavora.

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