Economia, Usa e Cina si giocano la leadership, ma le regole arriveranno dall'Europa

Economia, Usa e Cina si giocano la leadership, ma le regole arriveranno dall'Europa
di Romano Prodi
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Martedì 22 Dicembre 2020, 12:25 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:29

Arrivati alla fine di un anno che mai ci saremmo aspettati di vivere, corre l’obbligo di riflettere su quanto è avvenuto e su quali saranno i possibili eventi futuri. Non posso tuttavia azzardare, come era d’uso nel nostro appuntamento di fine dicembre, previsioni numeriche sui futuri tassi di crescita o sull’andamento quantitativo delle altre variabili economiche. Tutto, infatti, dipenderà dall’andamento di un’epidemia che già ci ha ingannato in passato e che forse lo farà ancora in futuro. Personalmente ho una totale fiducia che l’arrivo dei vaccini ci consentirà di porre fine alla pandemia e rimediare ai danni economici di quest’infausto 2020. La competizione scientifica che si è accesa per combattere il virus, ha infatti mobilitato un numero talmente elevato di qualificati protagonisti che il successo non potrà mancare. I tempi della resurrezione sono tuttavia ancora così indefiniti da obbligarci alla prudenza. Da parte mia ho già sbagliato una volta quando, all’inizio dell’estate, analizzando con cura i dati disponibili, concludevo che in autunno sarebbe finalmente cominciata la ripresa. Abbiamo avuto in effetti la ripresa, ma della pandemia e non dell’economia. Mi limito quindi a dire che, appena il virus sarà sotto controllo, vi sarà un rapido aumento dei consumi e degli investimenti, se non altro per l’enorme quantità di denaro lasciato ora inerte nelle banche da imprese e famiglie. Per non sbagliarmi ancora una volta, ingannato da eventi imprevisti, non mi esibisco quindi in previsioni sulle quantità e i tempi di questa ripresa, anche perché ci troveremo in un mondo talmente indebitato che, se non si troverà un rimedio a questo problema, anche il vaccino faticherà a esercitare il suo effetto positivo sull’economia. Trovo tuttavia estremamente utile riflettere sull’eredità di quest’anno perché, con la complicità del virus, si chiude un periodo storico e se ne apre un altro. Il 2020 segna, infatti, dal punto vista qualitativo e quantitativo, la concretizzazione del primato asiatico. In primo luogo sotto l’aspetto congiunturale. L’anno era infatti cominciato con la grande crisi cinese provocata dall’improvviso morbo esploso nel mercato di Wuhan. Sembrava davvero l’inizio della fine della Cina. Sono passati poco più di undici mesi e, invece, la Cina è in una fase di sviluppo così importante da avere perfino determinato la inversione della caduta mondiale del prezzo delle materie prime, petrolio e metano compresi. Nell’anno tragico dell’economia globale, la Cina registrerà una crescita fra il 2% e il 3%. Non è il 6% previsto ma vi è un abisso rispetto ai paurosi segni negativi di tutte le economie occidentali. Nel 2020 si è però compiuto un passo ancora più importante da parte della “rimonta asiatica”. Per capirlo ritorniamo qualche anno addietro, quando il Presidente Obama aveva lanciato il progetto di una grande zona commerciale fra gli Stat Uniti, Canada e i più importanti paesi dell’area del Pacifico.

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Un progetto che escludeva la Cina e puntava sugli Stati Uniti come punto di riferimento dell’economia del continente più popoloso del mondo.

Una volta arrivato al potere, il presidente Trump ha smontato il progetto, preferendo i rapporti bilaterali con i singoli paesi alla leadership di un progetto multilaterale. Nel vuoto che si è creato la Cina ha quindi sostituito gli Stati Uniti, firmando un trattato commerciale con i paesi asiatici che contano (esclusa l’India) e con l’Australia. Un accordo che include anche paesi ferocemente nemici della Cina dal punto di vista politico, come Taiwan, la Corea del Sud, il Giappone e la stessa Australia. Un accordo che comprende quasi un terzo della popolazione mondiale e una quota simile del commercio internazionale. In conseguenza di incredibili errori politici, una strategia, costruita per isolare la Cina, sta mettendo in un angolo gli Stati Uniti. Date le inimicizie esistenti tra paesi partecipanti, la gestione dell’accordo non sarà semplice, ma il messaggio è chiaro: il peso economico della Cina è diventato così grande che, per garantire un futuro all’economia, bisogna fare di necessità virtù e accordarsi con Pechino. A questo punto ci si deve obbligatoriamente porre l’interrogativo se, con il 2020, sia cominciato il secolo dell’Asia. È presto per affermare che il secolo americano è finito, perché grande è ancora la superiorità militare, tecnologica e finanziaria degli Stati Uniti, ma certamente, se il nuovo presidente non cambierà politica, il 2020 sarà ricordato come l’inizio del passaggio di testimone dall’America all’Asia. Cambiare politica da parte degli Stati Uniti non significa ovviamente rinunciare all’obiettivo di conservare il primato. “America First” è infatti un patrimonio condiviso da tutti i cittadini americani, siano essi repubblicani o democratici. Un primato che tuttavia non può essere mantenuto senza la ricostruzione della necessaria rete di rapporti e di alleanze. Il mondo divenuto multilaterale non può essere retto da un paese che agisce in solitudine: “America First” non significa “America Alone”, cioè un’America solitaria che rende inquieti i paesi amici, come è stato negli anni di Trump. Il compito di Biden, nel prossimo anno, sarà quindi quello di rendere di nuovo comprensibile e prevedibile la politica americana in uno scacchiere mondiale nel quale i rapporti di forza sono radicalmente cambiati. Il primo messaggio di cambiamento dovrà essere naturalmente rivolto all’Europa, verso la quale i momenti di diffidenza e di incomprensione sono stati numerosi e laceranti. Questo non significa che Biden non chiederà agli europei di aumentare le spese militari, o non difenderà con altrettanto vigore i giganti dell’Internet, ma che sarà più attento a non isolare l’Europa con misure e sanzioni che ne danneggiano pesantemente l’economia e dividono i paesi europei, ponendoli in contrasto fra loro. Di conseguenza il 2021 sarà l’anno in cui l’Unione Europea, forte del nuovo spirito di solidarietà del Next Generation EU, sarà obbligata a presentarsi unita di fronte all’amico americano perché questo è l’unico modo per difendere i propri interessi e i gradi di libertà necessari per affrontare i cambiamenti che sono avvenuti e che stanno avvenendo nel mondo. Un’unità necessaria per partecipare, insieme all’Asia e all’America, alla nuova rivoluzione scientifica e tecnologica che vede per ora come protagonisti solo la Cina e gli Stati Uniti. Una sfida per l’esito della quale il ruolo europeo sarà determinante. Se saremo uniti, come abbiamo cominciato ad essere negli ultimi mesi, potremo davvero essere gli arbitri della futura globalizzazione, che non sarà incontrollata e selvaggia. Essa dovrà infatti tenere conto del nuovo ruolo assunto dalle grandi aree economiche regionali e dovrà, quindi, fondarsi su nuove regole e su nuovi compromessi che renderanno essenziale il ruolo dell’Europa. Solo l’Europa infatti, per il faticoso lavoro compiuto nel corso della sua lontana e recente storia, può proporre le regole necessarie ad un mondo che sarà dominato dai rapporti di forza costruiti dall’Intelligenza Artificiale e dai nuovi modi con i quali gli uomini comunicano tra di loro. Forse sembrerà troppo ottimista, o addirittura fuori luogo, pensare a come costruire il futuro mentre il virus ancora avanza, ma voglio terminare queste mie incomplete riflessioni ribadendo la convinzione che il prossimo anno comincerà nel dolore della pandemia ma, col passare dei mesi, ci vedrà progressivamente protetti dal vaccino e obbligati a costruire il futuro. Un futuro a cui dobbiamo prepararci fin da oggi. 

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