Diasorin, dal nucleare al Covid un affare di famiglia: così il gruppo italiano è diventato un colosso

Diasorin, dal nucleare al Covid un affare di famiglia: così il gruppo italiano è diventato un colosso
di Jacopo Orsini
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Mercoledì 5 Maggio 2021, 16:21 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 14:44

Dalla finestra del suo ufficio a Saluggia, in provincia di Vercelli, Carlo Rosa vede ancora l’edificio che conteneva il reattore nucleare costruito alla fine degli anni Cinquanta e poi dismesso dopo il no degli italiani nel referendum sull’energia atomica del 1987. La storia di Diasorin, l’azienda italiana specializzata nella diagnostica in vitro diventata in due decenni un gruppo da 9 miliardi di capitalizzazione di Borsa, e del chimico torinese che la guida da oltre un ventennio, comincia da lì: dal nucleare, dove l’Italia mezzo secolo fa era all’avanguardia. Montecatini e Fiat avevano costituito una società, ribattezzata Sorin, per fare ricerca in quel campo. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, decisa dal primo governo di centrosinistra, spinse però l’azienda a diversificare la produzione negli apparecchi medicali. Poi nel 1997 le attività della diagnostica vennero separate dal gruppo e cedute all’American Standard, conosciuta in Italia per i bagni Ideal Standard, un conglomerato che all’epoca fatturava svariati miliardi di dollari. Non durò molto, nel 2000 infatti i nuovi proprietari mollarono. «Gli americani dopo aver distrutto l’azienda decisero di metterla sul mercato. Non conoscevano il business e fu un vero disastro - ricorda Rosa - Tre anni dopo averla comprata dalla Fiat fatturava appena 100 milioni di dollari e perdeva 10 milioni. Nel momento in cui questi signori ci misero in vendita, io e altri tre andammo alla ricerca di un azionista che comprendesse cosa fosse davvero la diagnostica. Cioè la capacità di produrre una serie di reagenti biologici che servono per fare i test diagnostici tipo quello del Covid. E noi quella capacità ce l’avevamo ma era inespressa. Ed era un po’ il tesoro nascosto dell’azienda che nessuno aveva compreso e noi invece sì». Nacque così un’intesa di ferro che dura ancora oggi con Gustavo Denegri, presidente del gruppo, e il figlio Michele, tuttora azionisti di maggioranza con il 44% circa. Un incontro che è stato «la vera fortuna e uno dei valori portanti di Diasorin», insiste Rosa all’epoca appena 33enne. «Uno dei problemi delle public company è che sono concentrate sul risultato di domani. L’azionista stabile e di lungo corso ti dà invece l’opportunità di guardare a lungo termine», osserva. Per Rosa comunque quell’operazione non significò solo comprare l’azienda dove lavorava. Suo padre Umberto, anche lui chimico, scomparso nel 2018, della vecchia Sorin aveva guidato la riconversione verso le tecnologie biomediche e ne era stato a lungo il numero uno. Era anche una vicenda di famiglia, insomma.

LA VISIONE

Prima di comprare Diasorin, Rosa si era fatto le ossa all’estero. Classe 1966, dopo la laurea in chimica presa nel 1991 a Torino si era trasferito negli Stati Uniti, occupandosi di malattie infettive. «L’esperienza in America mi ha lasciato tante cose, ma tra tutte un insegnamento fondamentale: quello di non aver paura di sbagliare. In Italia ci sono fior di imprenditori che rischiano tutti i giorni. Ma culturalmente negli Stati Uniti il fallimento è accettato, fallire è un’opzione. L’importante è imparare dagli sbagli e farne tesoro. In Europa invece è un marchio indelebile che ti porti dietro tutta la vita. Questa è la differenza». In vent’anni Diasorin nel frattempo è cresciuta e diventata un colosso della diagnostica. In sostanza produce e vende test per esami del sangue e di altri campioni biologici in grado di individuare malattie infettive o anche un tumore. Attività che con lo scoppio della pandemia e la necessità di avere a disposizione sempre più test affidabili sul Covid ha avuto un ulteriore sviluppo.

Tanto che nel 2020 i ricavi sono saliti del 25% a 881 milioni e i profitti del 41% a 248 milioni. Dal 2007 la società si è anche quotata in Borsa a Milano e da allora il valore del titolo si è moltiplicato per dodici volte. Il gruppo poi nelle scorse settimane ha fatto un nuovo salto con l’acquisizione per 1,8 miliardi di dollari dell’azienda texana Luminex, specializzata nelle tecnologie per esami biologici. Con questa acquisizione il 52% del fatturato della nuova società combinata e più del 50% dei dipendenti sarà negli Stati Uniti (contro, rispettivamente, 40 e 30%). «Ci vorranno due o tre anni per digerire il boccone, che non è piccolo - ammette Rosa - Dovremo concentrarci sull’integrazione culturale. Noi siamo circa 2mila, di cui circa 600 in Italia, il resto in giro per il mondo. Ora si aggiungono 1.400 americani. Ci sarà da lavorare parecchio. Poi penseremo alla prossima mossa». All’acquisizione negli Stati Uniti Diasorin è arrivata dopo che lo scoppio della pandemia l’ha fatta diventare un brand globale. La società è infatti il terzo produttore al mondo ad avere lanciato un tampone molecolare approvato negli Stati Uniti e tra le prime cinque a sviluppare un test sierologico. «Abbiamo capito che questa cosa non si sarebbe fermata in Cina - spiega Rosa - perché abbiamo lì 120 persone e un giorno a gennaio dello scorso anno stranamente abbiamo notato che non c’era nessuno in ufficio: erano in due, in due stanze diverse e con la mascherina. Cosa che oggi ci sembra normale ma all’epoca no. Da quel momento abbiamo messo tutta la nostra ricerca, 200 persone, a lavorare sul Covid».

L’EDUCAZIONE

 Una tragedia, quella della pandemia, che dovrebbe essere una occasione «per migliorare il nostro sistema sanitario - argomenta Rosa - investendo, portando cultura e tecnologia nella medicina territoriale. Quello che il Covid ha dimostrato è che quando distruggi la rete territoriale sei morto». E poi bisogna puntare sulle farmacie. «Abbiamo tutti scoperto che si può fare diagnostica lì invece che andare ad intasare gli ospedali». Il ragionamento è: dato che le farmacie sono destinate in parte a sparire perché le medicine si compreranno su Amazon o comunque on line, l’unico modo per utilizzare la loro capillarità è dotarle di servizi da dare alla comunità, come se fossero una estensione dell’ospedale. «Con il Covid abbiamo visto che il farmacista può fare di più che venderti l’aspirina o l’antibiotico», insiste il capo di Diasorin che ha anche un altro suggerimento da dare al governo: investire sulla scuola. «Ho una fissa - dice - educare i ragazzi. L’unico modo per uscire da questa situazione è spendere di più in istruzione. Quindi tanto per cominciare metterei più soldi nella scuola». Un suggerimento non originale, ma che acquista valore se a formularlo è un addetto ai lavori. Rosa intanto cerca di spingere i ragazzi a scegliere una facoltà scientifica. «Ho sempre avuto una curiosità», confessa. Lui chimico, la moglie immunologa, in casa si è sempre parlato di scienze della vita ma i due figli ventenni hanno frequentato un liceo scientifico e poi uno ha scelto economia e l’altra architettura. Come è possibile?, si è chiesto. Da qui l’idea di organizzare ogni anno un concorso nelle scuole (Mad for Science) dove i ragazzi sono invitati a partecipare progettando un biolaboratorio e i vincitori finanziati per realizzarlo. «Ci siamo accorti che per innamorarsi della biologia bisogna vederla, non va studiata sul libro - sostiene con passione - Perché vedere una cellula su un disegno è un conto. Se la vedi sotto un microscopio ti si apre un mondo». 

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