Chips act, la guerra è in corso ma la tigre europea ha unghie spuntate. A Catania il caso virtuoso di STM

Chips act, la guerra è in corso ma la tigre europea ha unghie spuntate. A Catania il caso virtuoso di STM
di Francesco Bisozzi e Gabriele Rosana
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 2 Novembre 2022, 11:41 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 07:41

Non è abbastanza ambizioso e non ha fondi sufficienti.

Il piano Ue sui microchip rischia di perdere il treno del 2030». Le parole di Kurt Sievers, amministratore delegato di Nxp Semiconductors, compagnia olandese leader nel design e nella lavorazione di chip, piombano come un macigno sulle velleità dello Eu Chips Act, il pacchetto dal valore di 43 miliardi di euro, tra investimenti e sussidi nazionali da autorizzare nel quadro della procedura sul controllo sugli aiuti di Stato ma anche europei, a cui affiancare risorse private. È il mix finanziario con cui la Commissione guidata da Ursula von der Leyen vuole raddoppiare la quota di mercato globale Ue nella produzione di semiconduttori entro la fine del decennio e affrontare un’altra dipendenza strategica, stavolta sul fronte tecnologico, dopo quella dalle energie fossili russe. Contenuto tra le priorità d’azione per il 2022, e formalmente proposto dall’esecutivo Ue a febbraio, il Chips Act – provvedimento legislativo che dovrà ricevere l’ok dai due co-legislatori dell’Unione – è attualmente in discussione tra i rappresentanti dei governi dei Ventisette e dagli eurodeputati nel Parlamento europeo, dove a occuparsene è la commissione Industria: l’adozione è attesa per il primo trimestre del 2023.

LA STRATEGIA

L’obiettivo espresso di Bruxelles per rendere l’Ue più autonoma dai grandi fornitori asiatici è passare dall’attuale quota di mercato mondiale pari ad appena il 9% – semiconduttori principalmente destinati ad applicazioni industriali e dell’automotive – al 20% in una manciata di anni; siccome in questo periodo la domanda globale è data in costante crescita, i tecnici di Bruxelles sanno però già che ciò vorrà dire quadruplicare gli sforzi del Vecchio Continente. Ma anche questo sprint potrebbe non bastare, raffreddano gli animi i capi di aziende che operano nel settore: pensare di colmare il divario con “appena” 43 miliardi è una vana speranza, ha detto ancora Sievers a un recente ritrovo di imprenditori a Dresda. «Abbiamo calcolato che, semmai, servirebbero almeno 500 miliardi di investimenti in Europa per raggiungere il target che s’è prefissata l’Ue», ha aggiunto. Insomma, di là degli slogan e nell’attesa della sua entrata in vigore, il pacchetto Ue a oggi è poco più che una tigre di carta. «I leader europei devono aumentare i fondi pubblici a sostegno di un settore di importanza strategica per il futuro dello sviluppo tecnologico e della competitività internazionale. È evidente che l’industria dei chip sta diventando uno dei principali campi di battaglia della rivalità geopolitica», si legge in una recente pubblicazione del think tank Bruegel, istituto di ricerca tra i più ascoltati a Bruxelles.

IL POLO SICILIANO

E mentre si attende che a Bruxelles suoni la sveglia, i singoli Stati stanno provvedendo a preparare il terreno per quando i piani della Commissione diverranno più ambiziosi. Per esempio, quanto a produzione di semiconduttori Catania sta diventando sempre più polo europeo. Qui l’italo-francese STMicroelectronics ha impegnato 730 milioni di euro per avviare nel 2023 una nuova linea dedicata alla produzione di substrati in carburo di silicio (Sic) per veicoli ibridi ed elettrici, inverter per eolico e solare, motori industriali e non solo. L’impianto verrà realizzato accanto allo stabilimento catanese di STM e sarà il primo nel suo genere in Europa, specializzato nella produzione su larga scala di substrati epitassiali in Sic da 150 millimetri, la base dei semiconduttori. I dispositivi realizzati con carburo di silicio consentono una maggiore efficienza, minori perdite e una migliore gestione termica. Risultato? Grazie ai nuovi semiconduttori, per esempio, un veicolo elettrico potrà superare i 600 chilometri di autonomia. Insomma, la prima fabbrica per la base dei chip europei vedrà la luce alle pendici dell’Etna. Nata nel 1987 dalla fusione tra la francese Thomson Semiconducteurs e dell’italiana SGS Microelettronica, e partecipata dal Tesoro italiano con il 13,75%, la multinazionale della microelettronica guidata da Jean-Marc Chery (a presiedere le attività italiane nel 2020 è stato chiamato il banker Maurizio Tamagnini) rappresenta oggi l’arma in più della Ue, insieme alla tedesca Infineon e all’olandese Nxp, per uscire dalla crisi dei semiconduttori. L’investimento di 730 milioni per il potenziamento del polo siciliano avverrà nell’arco di cinque anni e sarà supportato dallo Stato con 292,5 milioni (è il primo autorizzato all’interno della cornice del Chips Act). Una volta completato, l’impianto sarà gestito da 700 lavoratori diretti.

IL GRUPPO

STM, che in Italia conta 11 sedi e 11.500 dipendenti (nel mondo sono circa 48mila), ha chiuso il terzo trimestre con ricavi netti per 4,32 miliardi di dollari, un margine lordo del 47,6% e un utile netto di 1,1 miliardi di dollari. Per fine anno si prevede un fatturato di circa 16 miliardi di dollari. Poco seguito in modo alterno dalle cronache finanziarie, il gruppo italo-francese (quinto nel mondo) sta trasformando le sue attività produttive secondo due linee di azione: l’aumento della capacità di produrre a 300 millimetri e lo sviluppo di semiconduttori a larga banda interdetta realizzati con nuovi materiali come appunto il SiC o il GaN (nitruro di gallio). In entrambi i casi gli investimenti maggiori riguardano siti STM in Europa. Quanto all’Italia, fari puntati sullo stabilimento Agrate 300 (hinterland milanese) dove grazie a un investimento da 2 miliardi di dollari la multinazionale sta realizzando un ulteriore impianto, in grado di produrre wafer in silicio da 300 millimetri di diametro (600 nuovi assunti tra ingegneri di processo, ricercatori, tecnici e operatori), con benefici sulla quantità e la qualità della produzione dei semiconduttori. Si tratta del più grande investimento mai fatto in Italia nel settore dell’industria hi-tech. La possibilità tecnica di lavorare wafer sempre più grandi apre a economie di scala, risparmi sulla produzione ma anche alla creazione di chip più complessi. Va segnalato che la decisione di potenziare il sito di Agrate Brianza, che già occupa complessivamente 245mila metri quadri, è stata presa nel 2018, quando la crisi dei microchip non era ancora deflagrata: visione lunga, quella che sui chip sembra mancare a chi ci governa da Bruxelles.

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