Calcio, conti in rosso: in un anno persi 600 milioni. La serie A rischia il crac

Calcio, conti in rosso: in un anno persi 600 milioni. La serie A rischia il crac
di Jacopo Orsini
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Mercoledì 2 Dicembre 2020, 15:55 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:32

I bilanci scricchiolavano già da tempo. Il Covid ora rischia di dare un colpo fatale al calcio. Con gli stadi sbarrati ai tifosi dalla scorsa stagione, e gli incassi da abbonamenti e biglietti azzerati, le vendite di merchandising a picco e anche i soldi dei diritti tv a rischio i club vedono svanire le fonti di introiti che finora hanno permesso di puntellare un sistema già in bilico. La crisi provocata dalla pandemia ha infatti aggravato pesantemente la situazione ma il pallone, tranne qualche club con i bilanci in attivo, da tempo viveva al di sopra dei propri mezzi. Inter, Juventus, Lazio, Milan e Roma da sole nell’ultimo esercizio chiuso il 30 giugno scorso hanno totalizzato un rosso monstre di circa 600 milioni.

PERDITE RECORD

Il record è del club appena passato all’americano Dan Friedkin, con una perdita di 204 milioni (e debiti saliti a fine ottobre a 386 milioni dai 300 di giugno). I rossoneri registrano un disavanzo di 195 milioni, l’Inter si attesta a 102, la squadra di Ronaldo e Dybala a 90 mentre i biancocelesti si fermano a 13 milioni (il Napoli nonostante le richieste non ha voluto farci pervenire il bilancio). Tutta la serie A segna invece una perdita aggregata di quasi 800 milioni, con pochissime squadre con i conti in ordine. L’anno precedente i 20 club avevano bruciato comunque 275 milioni, a fronte di un giro d’affari di quasi 3,4 miliardi, e accumulato una montagna di 4,3 miliardi di debiti, secondo una analisi di Pwc, società specializzata nella revisione dei bilanci. Un sistema quindi già malato prima che arrivasse la botta del Coronavirus. La Lega, che riunisce le venti squadre della Serie A, ha cercato di correre ai ripari su due fronti. Da un lato ha siglato un accordo con i fondi Cvc, Advent e Fsi per cedere per 1,7 miliardi di euro il 10% di una nuova società che si occuperà di gestire e vendere i diritti del calcio in tv. Un accordo ancora da definire ma che dovrebbe dare ossigeno ai conti dei club e assicurare un flusso certo di introiti. Dall’altro ha provato a battere cassa con il governo.

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Lo scorso 25 ottobre il presidente Paolo Dal Pino ha scritto al premier Giuseppe Conte per chiedere dei ristori anche per il mondo del calcio. «Il rischio di collasso del sistema è molto alto», ha lanciato l’allarme il numero uno della Lega, che ha poi messo in fila una serie di numeri: lo scorso anno la stagione sportiva si è chiusa con meno ricavi per 200 milioni, un calo per il 60% dovuto alla mancanza di pubblico. Mentre per quella in corso fino al 31 dicembre si prevede un crollo di altri 400 milioni. In tutto fanno oltre 600 milioni solo nel 2020, ha scritto ancora Dal Pino, sottolineando che l’industria del calcio dà lavoro a 300mila addetti, versa contributi fiscali e previdenziali per oltre un miliardo l’anno e negli ultimi 10 anni ha girato un miliardo ogni dodici mesi alla Figc per sostenere tutto il movimento. Conclusione: «Aiutare il calcio professionistico è un obbligo laddove si vogliano davvero salvare tutti gli altri sport». Con i superstipendi dei calciatori che al momento sembrano intoccabili però l’appello non è stato accolto bene. La Lega ha insistito almeno per ottenere un rinvio dei versamenti di tasse e contributi e l’apertura di un tavolo congiunto con il governo. E una proposta di modifica alla manovra ora all’esame del Parlamento fa slittare di quattro mesi il saldo con il Fisco. I club insistono anche sulla riapertura per due anni alle sponsorizzazioni delle società di scommesse, ora vietate. «Il problema grosso del calcio non è solo la mancanza degli incassi, quanto il fatto che dal botteghino arrivassero risorse cash - ha osservato l’ex presidente dell’Inter, Massimo Moratti - La liquidità risolveva tanti problemi ai club».

Il rinvio delle scadenze comunque, anche se accolto, servirà solo a rimandare la resa dei conti. Quando la pandemia sarà passata, e i soldi di biglietti e abbonamenti torneranno nella casse delle società, la questione del costo del lavoro resterà da risolvere. «È essenziale che sia affrontato il prima possibile per garantire la sopravvivenza del sistema», avverte l’amministratore delegato dell’Inter, Alessandro Antonello. «Oggi, nel post Covid, l’incidenza dei salari sul fatturato sfiora il 70-80%: con questi dati non c’è industria che possa reggere a lungo senza una riforma». Insomma o si affronta il problema o il calcio non sopravvive. Fra il 2014 e il 2019 in serie A il costo aggregato degli stipendi è aumentato quasi del 50%, passando da 1,2 a 1,7 miliardi. Per aiutare i club, la Federazione è stata costretta a far slittare più volte il termine entro il quale le società devono versare i salari per non incorrere in penalizzazioni.

I CONTRATTI

Le squadre vogliono che il problema degli stipendi venga affrontato collettivamente, a livello nazionale ed europeo. La Lega però rimanda la palla ai singoli club, spiegando che i pagamenti dipendono dai contratti individuali dei calciatori. Si è ipotizzato di introdurre un tetto, come quello adottato in Spagna dalla Liga, che però in Italia finora non ha mai fatto breccia. L’Associazione dei calciatori comunque l’ha già bocciato come inattuabile. Anche se in Spagna c’è da tempo e le società dovranno anche ridurre gli stipendi di 500 milioni per evitare il tracollo. «I club non hanno altra scelta», ha allargato le braccia il capo della Liga, Javier Tebas. In Italia invece, a parte qualche taglio circoscritto nei mesi del lockdown la scorsa primavera, di ridurre i salari per ora non se ne parla. «Il calcio non si salva chiedendo solo ai giocatori di ridursi gli ingaggi», ha detto lo juventino Leonardo Bonucci. Può darsi ma senza interventi sarà difficile resistere.

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STADI DI PROPRIETA'

Club in cerca di nuove strade per far crescere gli incassi

Rimettere in carreggiata i conti del pallone non sarà una impresa facile, anche quando sarà passato l’effetto Covid. Da anni i club cercano nove fonti di incassi per far fronte a stipendi sempre più pesanti. Lo stadio di proprietà, con tutto l’indotto di ricavi che un impianto moderno può portare, è da anni considerato una svolta necessaria per i club. Ma fra le grandi in Italia solo la Juventus è riuscita a costruirsi il suo impianto. A Roma, dopo quasi un decennio di tentativi inconcludenti, si rischia di ripartire da zero. Milan e Inter premono da anni sul Comune per abbattere il glorioso San Siro e costruirsi la loro casa. Ma la strada è in salita. E i club sono a corto di soldi. «Il calcio dovrà necessariamente ripartire dai percorsi più virtuosi intrapresi nel corso degli ultimi anni e dalle nuove grandi sfide per esplorare i modelli più efficaci di coinvolgimento dei propri tifosi», sostiene Andrea Samaja di PwC, che per la Federcalcio ha appena curato il ReportCalcio, una fotografia dello stato di salute pre-Covid di quello che definisce «uno dei settori più rilevanti del nostro Paese». Secondo Samaja le strade da battere per le società sono il «consolidamento della “rivoluzione digitale”» e le «frontiere più innovative dell’intrattenimento, come il mondo degli e-sports». 

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