I conti nel pallone, bilanci-voragine per gli stadi vuoti. Le squadre di serie A chiedono royalties sulla vittoria agli Europei

I conti nel pallone, bilanci-voragine per gli stadi vuoti. Le squadre di serie A chiedono royalties sulla vittoria agli Europei
di Michele Di Branco
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Mercoledì 8 Settembre 2021, 11:57 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 12:01

Nell’estate in cui cambiano squadra i due leader mondiali del calcio degli ultimi 15 anni (Messi e Ronaldo) e il miglior giocatore degli ultimi Europei (Donnarumma, per ora malinconicamente in panchina nel Psg), spostando ancora una volta fiumi di denaro, l’Italia del pallone va a caccia di sostegni con il cappello in mano, per cercare di non affondare in un mare di debiti. Finita la sbornia della Coppa vinta a Wembley, i presidenti delle squadre di serie A si preparano, attraverso il presidente della Lega Paolo Dal Pino, a chiedere una percentuale sul tesoretto (30 milioni di euro per la vittoria e altri soldi dagli sponsor) che la Figc sta incassando dopo il trionfo sugli inglesi. Raccontano che il presidente federale Gabriele Gravina si prepari a dire un no secco, facendo notare che, casomai, dovrebbero essere le società a ringraziare la Federazione e Mancini se i loro giocatori si sono valorizzati sul mercato migliorando i loro bilanci scassati. Altro che richieste strampalate di royalties. E dunque, un anno e mezzo di pandemia, con gli stadi vuoti e costi insostenibili sul groppone hanno messo spalle al muro il calcio in Italia, acutizzando una crisi che si trascina ormai da almeno 10 anni. Crisi tecnica, innanzitutto (dopo la vittoria dell’Inter nel 2010 nessuna squadra italiana di club ha più vinto un trofeo in Europa), ma anche e soprattutto finanziaria. È l’industria stessa del pallone ad ammetterlo.

LA SITUAZIONE

Un report della Figc indirizzato al governo attesta che dal 2008 il calcio professionistico italiano ha prodotto perdite per 4,1 miliardi e che in questo arco di tempo l’indebitamento si è quadruplicato. Sono 4 anni che i margini operativi si riducono a causa del costo del lavoro, cresciuto mediamente del 4,6% all’anno. La sentenza è la «non sostenibilità del sistema nel breve medio periodo». Poi ci si è messo il Covid: nella stagione 2019/2020 la Serie A ha incassato 302 milioni in meno dagli stadi e 228 milioni in meno dagli sponsor. Per non dire delle plusvalenze: 334 milioni in meno. In totale, l’impatto è di 1 miliardo e 37 milioni di perdite. Con un debito consolidato che ora tocca 5,2 miliardi. Certo, la crisi ha contagiato l’intero continente, ma la Serie A risulta il campionato europeo che ha sofferto di più in assoluto. L’ultimo report di Deloitte spiega che, pur avendo registrato ricavi totali per 2,1 miliardi di euro, ha subito una performance negativa pari al 18%, cioè 443 milioni in meno. E anche se è stata l’unica Lega a ridurre la spesa salariale totale nel 2019/20, con compensi aggregati che sono scesi di 147 milioni (-8%) a 1,6 miliardi di euro, tuttavia la riduzione dei ricavi causata dal Covid-19 ha portato il rapporto salari-entrate al 78% - il livello più alto in 16 anni - poiché tre club hanno speso più per i compensi di quanto hanno prodotto in termini di entrate.

Infine, le perdite operative aggregate dei club di Serie A sono notevolmente peggiorate nel 2019/20, da 17 a 274 milioni di euro, il più brutto risultato dal 2001/02: le sole perdite operative combinate di Milan e Roma hanno rappresentato quasi i due terzi.

LO SCENARIO

Il problema, sperando che la pandemia conceda una tregua, è che l’Italia potrebbe non essere in grado di intercettare la ripresa perché le sue basi (stadi, merchandising e settori giovanili) sono arretrate. «L’intero sistema – spiega Luigi Capitanio, partner monitor Deloitte – si è fatto trovare impreparato e adesso paga le storture accumulate negli anni. In questa fase, dove si sta ritrovando un certo grado di normalità, come dimostrano le partite con gli stadi pieni al cento per cento in Inghilterra e in Francia, bisogna intervenire urgentemente con le necessarie riforme per favorire un deciso e sostanziale upgrade del parco infrastrutturale (stadi, centri allenamento) e approcciare l’industria del calcio sempre più in logica sistemica così come avviene nei grandi settori industriali italiani». Il sospetto, però, è che di fronte alla casa che crolla, la reazione sia solo di carattere difensivo e non costruttivo. O, peggio, che la soluzione sia a questo punto quella di aggrapparsi ai pantaloni dello Stato.

IL PIANO

Nel “Progetto Fenice”, inviato dalla Figc a Palazzo Chigi, tra le altre si indicano come via d’uscita investimenti statali da 500 milioni (da vincolare a spese in infrastrutture), sospensione con nuova calendarizzazione delle passività fiscali sospendendo i pagamenti fino al 2024 e ridistribuendoli su 8-12 anni ed estensione dei vantaggi fiscali del decreto crescita a tutti i trasferimenti, non solo a chi non sia residente in Italia da almeno 2 anni. In cambio, la Figc promette di sviluppare misure di controllo, anche settimanali, per promuovere l’autosufficienza economico-finanziaria del calcio attraverso un tetto di spesa in linea con i flussi di cassa. Inoltre verrebbe introdotto un Salary cap, con luxury tax sui trasferimenti che lo sforano. Secondo gli esperti di Deloitte, invece, è il momento di pensare a creare valore. E non a giocare di rimessa. «Questa profonda crisi portata dalla pandemia – ammonisce ancora Capitanio – deve essere l’occasione per traghettare il calcio verso nuovi modelli di business che garantiscano l’autosufficienza economico-finanziaria, bilanciando spese e ricavi per ogni squadra. Infatti, certi modelli di business non sono più sostenibili e si cerca di correre ai ripari attraverso cessioni eccellenti, che riducono il monte ingaggi facendo respirare i bilanci in apnea ma che impoveriscono le rose delle squadre con ricadute sulla competitività del nostro campionato oltre i confini nazionali».

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