Piketty: «Renzi meglio di Valls e Hollande, guidi lui il fronte contro il rigore»

Piketty: «Renzi meglio di Valls e Hollande, guidi lui il fronte contro il rigore»
di Francesca Pierantozzi
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Giovedì 2 Ottobre 2014, 12:46 - Ultimo aggiornamento: 11 Novembre, 14:53
PARIGI – Thomas Piketty lo assicura: del suo ormai besteller "ll capitale del XXI secolo", appena pubblicato in Italia da Bompiani, (mezzo milione di copie vendute solo negli Usa) si può arrivare fino a pagina 726 e tralasciare l’ultimo capitolo, il quarto, quello in cui l’economista francese propone «un’utopia», un’imposta mondiale sul capitale per ridurre le disuguaglianze, limitare la concentrazione della ricchezza e favorire la redistribuzione. E il passato secondo Piketty, che nel suo libro raccoglie un’inedita mole di dati statistici su patrimonio pubblico e privato di venti paesi dal XVIII secolo a oggi, parla chiaro: «Il boom economico dei trent’anni successivi al secondo dopoguerra, (che i francesi chiamano i trenta gloriosi) è stata una parentesi. Dalla caduta del muro di Berlino in poi si osserva un processo di ricostruzione e accumulazione del capitale ereditato con un approfondimento delle diseguaglianze. Gli economisti degli anni ’70 non potevano vederlo, perché non avevano dati a diposizione». Ovvero, il patrimonio (composto sempre più da risparmio e eredità) rende molto più del lavoro, possedere è meglio che lavorare.



Premettendo di e ricordando (se mai ce ne fosse bisogno) «di credere profondamente nella proprietà privata e nelle forze del mercato come fattori non solo di efficacia economica, ma anche di libertà» Piketty lancia un allarme: «servono istituzioni democratiche fiscali, educative molto forti per assicurarsi che queste forze capitalistiche vadano nella direzione giusta dell’interesse generale. In caso contrario c’è il rischio che la concentrazione del patrimonio raggiunga un livello tale che segmenti interi di una società restino fuori, siano esclusi dalla globalizzazione, e che cedano a tentazioni nazionalistiche, populiste o estremiste». In tournée mondiale da mesi (Stati Uniti, Europa, Corea, Cina) Thomas Piketty sarà a Milano e Roma per due incontri, l’8 ottobre alla Bocconi e il 9 a Montecitorio.



Qual è il posto dell’Italia nel capitalismo del XXI secolo?

«L’Italia illustra perfettamente l’emergenza di questo nuovo capitalismo patrimoniale, è un caso estremo a livello della distribuzione della ricchezza. In un grafico sul rapporto tra capitale privato e pubblico nei paesi ricchi tra il 1970 e il 2010, l’Italia risulta al massimo livello per quanto riguarda i patrimoni privati e al minimo per capitale pubblico. L’Italia è il simbolo dell’affermazione di una società patrimoniale, di un processo di arricchimento privato e impoverimento pubblico».



Come giudica la politica di Matteo Renzi?

«Il rinnovo generazionale è già un fatto importante, per noi francesi in particolare, che soffriamo di un’assenza di rinnovamento del personale politico, con Hollande che era già all’Eliseo trent’anni fa con Mitterrand. Ma la giovane età non basta. Dopo sei mesi è il momento per Renzi di passare ai fatti, in particolare sull’Europa».



Per fare cosa?

«La situazione nella zona euro è molto grave. Globalmente, la crisi finanziaria è stata gestita molto male e non si tratta soltanto di scelte economiche sbagliate: l’Europa cerca di compensare con un eccesso di rigidità nelle regole, in particolare sul controllo dei deficit, l’assenza d’istituzioni politiche e democratiche adatte a una moneta unica, che non può esistere senza uno stato, senza un bilancio comune, con 18 sistemi fiscali diversi, 18 debiti pubblici, 18 tassi di interesse, 18 paesi in concorrenza sui mercati finanziari. Dobbiamo trasformare le istituzioni dell’eurozona, mutualizzare il debito pubblico e instaurare un’imposta comune sugli utili delle società, altrimenti continueremo a farci prendere in giro dalle multinazionali del mondo intero, con le nostre piccole e medie imprese più tassate dei colossi. Tutti lo sanno, ma niente potrà cambiare fino a quando non avremo una sovranità politica e democratica in comune, un parlamento e un ministro dell’eurozona. E se non ci riusciamo a 18, bisognerà cominciare con un gruppo più ristretto di paesi».



Ma chi può convincere la Germania?

«Se l’Italia e La Francia presentassero alla Germania una proposta precisa di unione politica e di bilancio con un parlamento comune e un’imposta comune sugli utili delle società, sarebbe molto difficile per la Germania continuare a rifiutare a lungo, o rifiutare tutto. Il problema è che per ora non esiste nessuna proposta. Renzi e Hollande parlano di crescita, ma non c’è un piano di unione politica. Siamo ancora in tempo. Mi piacerebbe che Matteo Renzi, che è forse più coraggioso di François Hollande e Manuel Valls messi insieme, facesse una proposta di questo tipo».



Renzi è coraggioso anche quando attacca il codice del lavoro?

«Non conosco abbastanza la situazione italiana, ma sono convinto che sia possibile modernizzare, anche in modo radicale, il nostro sistema sociale e lo stato provvidenza senza smantellarli. Troppo spesso la sinistra è sulla difensiva e tende a considerare che le istituzioni create durante gli anni del boom siano un paradiso terrestre che non si può modificare. Penso invece che molto sia migliorabile nei nostri sistemi sociali. La sinistra deve essere più offensiva sulla rifondazione dello stato sociale. Nello stesso tempo, per chiedere riforme profonde del codice del lavoro o del sistema pensionistico, bisogna mostrare alla gente che i più ricchi pagano la loro parte. Se le grandi società multinazionali pagano meno tasse sui loro profitti delle piccole imprese, ogni riforma diventa incomprensibile. Quando Monti ha creato un tasso d’imposizione sull’immobiliare otto volte più alto di quello applicato alle rendite finanziarie, ha creato un’imposta regressiva, in cui un proprietario di una casa da 200mila euro paga un’aliquota più alta di chi detiene un portafoglio finanziario di svariati milioni. E’ l’ennesima illustrazione della contraddizione europea: da un lato è evidente la necessità di chiedere un contributo ai patrimoni, vista la prosperità patrimoniale rispetto alla stagnazione dei salari, dall’altro è difficile farlo da soli, perché i contribuenti possono emigrare verso banche di paesi con una fiscalità più clemente».



Riformare è dunque impossibile?

«Per uscire da questa contraddizione ci vuole più unione in Europa. L’unione politica non eliminerà la necessità di riformare il diritto del lavoro o le pensioni, ma le renderà possibili: è certo molto più facile far accettare a ognuno di fare sacrifici, se si può garantire che i più benestanti facciano almeno gli stessi sacrifici dei meno abbienti. C’è un uso troppo ideologico del tema della riforma: bisogna essere radicali sulle riforme, ma anche sull’equità».
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