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Troppa finanza/ L’economia reale contro la minaccia della Brexit

Articolo riservato agli abbonati
4 Giugno 2016 di Giulio Sapelli (Lettura 5 minuti)

Le notizie che si affollano sempre più sulla necessità di far fronte alle inevitabili conseguenze che una eventuale uscita del Regno Unito potrebbe avere sull’Unione Europea e che Il Messaggero ha esemplarmente illustrato ieri, ci rimandano a un contesto, non solo economico ma anche internazionale, che un tempo era profondamente diverso da quello odierno perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona. Eco di tutto ciò la si è avuta anche nella inusitata schiettezza che la relazione del governatore Ignazio Visco ha reso manifesta, con una sostanziale rivendicazione della specificità dell’autonomia del sistema bancario italiano. Anche a causa dell’addensarsi della minaccia della Brexit, in questa convulsa settimana tra maggio e giugno mi sono tornate alla mente le giornate del novembre 1975. Quando a Rambouillet, grazie a una forte spinta del lungimirante Valéry Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di Stato e di governo di Francia, Germania Ovest, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. Erano anni difficili: anni seguiti alla guerra bruciante del Kippur, con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi e soprattutto con l’avvento di quello che allora si chiamava stagflazione, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi. 

Ebbene, in quei giorni del novembre 1975 i “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva fossero al capolinea. E questo aveva colto tutti di sorpresa. Va detto che i ministri finanziari di Francia, Gran Bretagna, Germania Ovest, Giappone e Stati Uniti si riunivano da tempo nella sala della Library della Casa Bianca per discutere il da farsi. Ricordo che a queste riunioni, il nostro ministro delle Finanze veniva invitato solo occasionalmente, sicché furono proprio gli Stati Uniti a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. È un episodio che occorre ricordare perché solo la perseveranza di Aldo Moro, allora premier, e del ministro degli Esteri Mariano Rumor, rese possibile la “costruzione” dell’invito che, grazie anche al segretario generale della Farnesina (Raimondo Manzini), alla fine venne condiviso da tutti. Quel vertice fu decisivo per il nostro Paese, perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali.
 

Ricordo che da quella riunione scaturirono obiettivi profondamene diversi da quelli di oggi, obiettivi fondati su impegni di cooperazione incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per fare fronte all’aumento dei prezzi. Oggi tutto è cambiato. Anzitutto, come si è verificato dell’ultimo G7, il problema non è più l’inflazione ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare. In questo senso Shinzo Abe, premier del Giappone, ha propugnato una politica di deficit spending, rifiutando di aumentare le tasse nel suo Paese, per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante da quasi un trentennio alla non crescita. E poi è cambiato anche il contesto europeo: l’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo, attraverso le regole dei trattati europei a tutte le altre nazioni, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa così da realizzare quei magnifici surplus. Quarantuno anni dopo Rambouillet, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa, ma hanno tuttavia un disegno imperiale mondiale: l’accordo Ttip che hanno già realizzato (ma che il Congresso non ha ancora votato) e l’accordo con l’Europa, che francesi e tedeschi osteggiano ma che ora l’Italia, soprattutto grazie al neo ministro dello Sviluppo, Mario Calenda, caldeggia con un simbolico ritorno a Rambouillet.

Ora rendiamo agli Usa quanto gli Usa ci accordarono quarant’anni fa, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica, e quindi dai flussi del commercio mondiale. Ed è questa perseveranza transatlantica la migliore risposta all’eventuale vittoria della Brexit. Di ciò sono in pochi in Italia ad avere contezza, a cominciare da una parte degli imprenditori. Comprendere ciò è infatti decisivo perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale. Si addensano infatti nubi molto più minacciose di quelle del 2008. La causa di ciò è nella tendenza alla deflazione europea che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco. Dall’altro lato evidenzia l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi. L’eccesso di finanza perversa (derivati, collateralizzazione del debito, eccetera), non si sconfigge con l’eccesso di emissione di moneta come fa la Bce. Mario Draghi è prigioniero della sua formazione neoclassica. La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che egli sollecita i governi a realizzare più riforme strutturali possibili, ma qui sta l’insidia: le riforme che egli sollecita favoriscono la crisi.

Tasse elevate, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra debito cattivo e debito buono (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario ma creazione di occupazione. In quest’ottica, la decisione annunciata dalla Bce di acquistare i bond delle grandi imprese che rischiano di vedere aumentare il loro debito e di veder fallire le loro spericolate manovre finanziarie, somiglia tanto a un boomerang. Se tali politiche verranno reiterate, altro non faranno che aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta. E c’è chi si è già mosso di conseguenza: George Soros, non proprio l’ultimo arrivato quanto a lungimiranza in questioni finanziarie, ha liquidato tutti i suoi valori mobiliari e ha comprato lingotti d’oro, mentre molti esponenti della cuspide della ricchezza mondiale svendono a qualsivoglia prezzo asset mobiliari o per tenersi liquidi in monete che non siano l’euro, oppure per investire in asset dell’economia reale. Vien voglia di tornare a Rambuoillet, gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa è devastante. Probabilmente non basterà, ma di sicuro è una risposta sulla quale vale la pena di riflettere nell’eventualità della Brexit. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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