Tesoro, così si rischia di bruciare il paracadute contro il rialzo dei tassi

Tesoro, così si rischia di bruciare il paracadute contro il rialzo dei tassi
di Osvaldo De Paolini
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Venerdì 18 Maggio 2018, 08:56 - Ultimo aggiornamento: 17:36
Qual è l'origine del contrasto che vede la Procura della Corte dei Conti insolitamente impegnata contro il Tesoro, al punto da interferire nella gestione del debito pubblico, da sempre prerogativa esclusiva del governo? La domanda non è oziosa, perché di questi tempi, con lo spread tornato in area 160, per l'Italia non è certo il miglior viatico una contrapposizione che rischia di minarne ulteriormente l'immagine sui mercati. E d'altro canto, in nessun Paese la magistratura contabile ha mai messo in dubbio l'operato del proprio ministero del Tesoro, mettendo sotto accusa l'uso di derivati introdotti, si badi, per attenuare i rischi connessi al rincaro dei tassi. Che si tratti di un'anomalia è poi provato dalla durezza con cui il ministero dell'Economia, rompendo una tradizione di riserbo sull'argomento, di recente ha smentito la raffica di congetture sorte attorno al giudizio promosso dalla Procura della Corte.

IL COSTO MINORE
L'antefatto. Nonostante le non poche archiviazioni sull'argomento da parte della magistratura ordinaria, la Procura generale del Lazio ha ritenuto di mettere nel mirino la chiusura anticipata decisa dal Tesoro nel 2012 del derivato Morgan Stanley, per il quale la Repubblica Italiana pagò 3,1 miliardi. Doverosa annotazione: se quel derivato fosse arrivato alla scadenza naturale, l'Italia anziché pagare 3,1 miliardi, avrebbe dovuto sborsare 5,9 miliardi.

Il minor costo per lo Stato fu dunque di quasi 3 miliardi comprendendo il risparmio di 200 milioni nella raccolta della provvista necessaria all'estinzione. Ciò nonostante, la Procura ha portato in giudizio i vertici passati e presenti dell'Economia, vale a dire Vincenzo La Via (attuale direttore generale), Maria Cannata (ex direttore del debito pubblico), Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli (entrambi ex direttori generali del Mef) insieme alla banca d'affari Morgan Stanley. E brandendo la motivazione del danno erariale, ora chiede a costoro di rifondere lo Stato con quasi 4 miliardi. Con quale accusa? Uso illecito dei derivati di finanza pubblica definiti negli atti «strumenti speculativi», una scommessa insomma.

Per chi ha competenza in materia vien facile però osservare che chi scommette è la banca e non il Tesoro, visto che per quest'ultimo il derivato rappresenta solo una copertura finalizzata ad evitare di pagare interessi più alti: non a caso qualche anno fa la Corte Costituzionale ne ha indirettamente legittimato l'utilizzo. Peraltro, vista la costruzione di questi strumenti (se i tassi sono alti paga la banca, se scendono sotto un determinato livello paga il Tesoro) in una situazione di tassi-zero come l'attuale è logico che a pagare sia lo Stato. Non a caso nell'ultimo Def figura l'accantonamento di oltre 1 miliardo destinato all'eventuale estinzione di derivati.

Va detto che dopo l'estinzione del 2012, il Tesoro ha chiuso derivati per circa 2 miliardi nel 2014 ed altrettanti nel 2016. In modo quasi automatico. E senza indagini della Corte nonostante siano state applicate proprio le clausole che la Procura considera illecite. Va anche segnalato che quando venne estinto il derivato Morgan Stanley, lo Stato aveva 31 contratti aperti con le medesime clausole di uscita e per un valore totale di 42 miliardi: al 31 dicembre 2014, i derivati in questione erano scesi a 13 e il valore ridotto a 9,3 miliardi.
Insomma, quando l'allora direttore Cannata optò per l'estinzione non solo sapeva quel che faceva, ma lo fece nel pieno rispetto delle direttive emanate da Ciampi e Draghi. Guai se non l'avesse fatto. E guai se oggi, all'occorrenza, non lo facesse Davide Iacovoni, il suo successore.

Un ruolo cruciale, quello di Iacovoni. E non solo perché ogni anno deve emettere titoli pubblici per circa 400 miliardi destinati a sostituire quelli in scadenza; ma anche perché, semmai si arrivasse a una sentenza di condanna sul caso Morgan Stanley, potrebbe finire anch'egli sul banco degli imputati. D'altro canto, non si vede come Iacovoni possa agire diversamente: quale vice della Cannata, anch'egli ha fatto parte alla delegazione del ministero che negoziò per mesi (tra il 2011 e il 2012) la chiusura del derivato. Ovviamente condividendone l'esito. Perciò, l'unico modo per evitare di trovarsi nella incresciosa situazione della Cannata è che lui rinunci a gestire il debito rifiutandosi di firmare gli impegni sui derivati.

Ma ciò avrebbe gravi conseguenze sul debito, che a questo punto non avrebbe più coperture, interamente esposto alle oscillazioni verso l'alto dei tassi e quindi con aggravio notevole per le tasche degli italiani in termini di maggiori interessi da pagare. E c'è un rischio peggiore, qualora la Corte optasse per una sentenza sanzionatoria: visto il destino riservato a Morgan Stanley, le banche d'affari specialiste (una ventina) con le quali per solito il Tesoro negozia il rinnovo dei Btp potrebbero decidere di uscire di scena. Un'eventualità che avrebbe un impatto diretto sulla capacità del Paese di rifinanziarsi proprio ora che lo spread si va allargando.

QUARANTA RELAZIONI
Va poi considerato che dal 1996 il Tesoro è obbligato ad inviare ogni sei mesi una relazione dettagliata sulle operazioni di gestione del debito, quindi anche sui derivati. Ebbene, sono state oltre 40 le relazioni inviate alla magistratura contabile e mai è stata sollevata alcuna osservazione. Lascia perplessi che ora una corrente di pensiero vicina alla Corte promuova addirittura la tesi che la magistratura contabile debba fare non solo un esame ex post sull'attività del Tesoro, ma anche costituire una struttura in grado di intervenire ex ante. Sarebbe come commissariare del ministero.

Dunque, la questione va oltre il singolo caso e investe un tema istituzionale di grande delicatezza con il rischio di creare un vulnus gravissimo all'immagine di un ministero la cui prima linea è chiamata ogni giorno a confrontarsi con gli umori dei mercati internazionali, i quali da tempo si interrogano sulla capacità dello Stato italiano di contenere entro limiti tollerabili un debito che ha ormai raggiunto quota 2.300 miliardi.
Si ricorda infine che anche il Tribunale dei ministri si è pronunciato sulla vicenda, assolvendo da tutte le accuse Mario Monti, all'epoca premier nonché ministro dell'Economia ad interim, rilevando peraltro come il Tesoro - in ciò assistito dall'autorevole parere di Sabino Cassese - abbia ben agito nell'ambito della ristrutturazione delle operazioni in derivati.
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