Le riforme costano? Un tabù da sfatare

di Francesco Grillo
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Domenica 12 Aprile 2015, 22:59 - Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 00:06
Molti dei discorsi che fanno gli esperti di contabilità pubblica partono da una premessa - mai dimostrata, mai messa seriamente in discussione - che le riforme costano. Tale assunto sembra, del resto, accettato anche dal Documento di economia e finanza appena presentato dal governo: una maggiore efficienza dell’amministrazione pubblica (che, pure, per definizione, dovrebbe corrispondere ad un minore spesa dello Stato) costerebbe circa 300 milioni di euro all’anno per i prossimi tre anni secondo la previsione sull’impatto delle riforme sulla finanza pubblica.

Peraltro, il documento - sostengono i più preoccupati - neppure affronta la questione ben più consistente del rinnovo dei contratti nel pubblico impiego che, per molti, è propedeutico per poter far vivere le riforme della Pa e che potrebbe costare ben di più dei 10 miliardi necessari a non far scattare il tanto temuto aumento dell’Iva. Se la premessa sul costo delle riforme fosse vera, ci ritroveremmo, però, ancora una volta nel vicolo cieco dal quale non riusciamo ad uscire da decenni.

Per ricominciare a crescere - lo stesso Def valuta che la riforma della Pa può aggiungere dal mezzo punto al punto intero di Pil nei prossimi anni – abbiamo assolutamente bisogno di trasformare in risorsa quello che è attualmente il peso della burocrazia. Ma per riuscirci dobbiamo spendere soldi e capitale politico che non abbiamo.



Il risultato è che si rischia di continuare ad essere impantanati sul fronte della «madre di tutte le riforme» che il governo italiano ha messo al primo posto della sua agenda. Tocca al ministro Madia risolvere, con pragmatismo e visione, questa contraddizione.

Il paradosso del costo delle riforme è vero, però, a metà. È vero che una riforma drastica della Pa non può prescindere da un cambiamento delle regole di ingaggio tra lo Stato come datore di lavoro e i suoi dipendenti e dirigenti. Sarebbe, tuttavia, un grosso errore interpretare il nuovo contratto come un prezzo – la cui entità è, peraltro, fissata in anticipo sulla base di automatismi predefiniti - da pagare al sindacato per ottenere il consenso ad un cambiamento che serve a tutti. Sarebbe un grosso errore perché significherebbe tradire l’obiettivo finale del cambiamento che è proprio di limitare gli automatismi e legare non solo gli stipendi individuali, ma il costo dell’intera amministrazione al valore che lo Stato riesce a restituire al cittadino contribuente.

Allora a ben vedere la mancata previsione di una cifra fissa da allocare al rinnovo dei contratti pubblici potrebbe essere un bene. Potrebbe essere un bene se ciò significa che il governo rifiuta l’automatismo del rinnovo e si riserva di affrontare i nuovi contratti abbandonando la logica dell’aggiornamento dei costi storici per stabilire che il costo della Pa viene rivisto, ogni anno, sulla base di quali sono i bisogni e cosa le tecnologie offrono per soddisfarli. Sarebbe, invece, un male se continuasse a prevalere il punto di vista degli esperti di contabilità pubblica e ci dovessimo ritrovare, tra qualche mese, con una riforma che non ha, semplicemente, l’ossigeno per vivere.

Vero è che l’amministrazione pubblica dal 2010 è totalmente pietrificata: i contratti sono congelati e gli stipendi non recuperano neppure l’inflazione; le assunzioni sono bloccate e ciò aumenta, praticamente, di un anno, ogni anno, l’età media del personale in servizio; i premi di produttività sono uguali per tutti e, comunque, i fondi che avrebbero dovuto finanziare gli incentivi sono finiti (500 euro lordi medi all’anno nelle amministrazioni locali); ciò, infine, rende sterile qualsiasi esercizio di valutazione, nonostante il fatto che è ormai acquisito che è la valutazione il motore vero di un’organizzazione in grado di sopravvivere adattandosi continuamente al proprio ambiente. Tuttavia, l’agonia della Pa non può più passare per la concessione di pannicelli caldi; va rivisto tutto e una trattativa non dovrebbe neanche cominciare se la logica è quella dell’automatismo.

In effetti, a leggere il piano nazionale di riforma di altri Paesi, sembra che non tutti siano schiacciati dal paradosso che ci intrappola. Non necessariamente la riforma della Pa è vista come un costo nei documenti che Spagna o Inghilterra presentano alla Commissione europea. Del resto, in quei Paesi non è impensabile la ristrutturazione di interi comparti che sono diventati obsoleti o l’allontanamento dei dirigenti che falliscono ripetutamente di ottenere i propri obiettivi; mentre lo è il blocco delle assunzioni che si pratica solo in Italia e che di fatto ha condannato la Pa stessa all’obsolescenza. Nel resto d’Europa non è impossibile ottenere un premio; proprio perché è possibile che chi delude finanzi con la propria tasca un incentivo al collega bravo.

Di certo la riforma troverà il suo banco di prova più difficile e concreto proprio quando dovrà essere attuata nei contratti nuovi. Anzi, quando dovrà prendere corpo attraverso la trasformazione dello stesso processo negoziale dei contratti. Molto più spazio dovrà essere dato a quelli per comparto e per territorio. E anzi, forse bisognerà invertire la logica che fa precedere la contrattazione decentrata - centrata cioè sui bisogni e sulle organizzazioni - dalla definizione di un quadro macroeconomico generale che, di certo, deve definire i vincoli di finanza pubblica, ma non può dettare automatismi che rendano ancora più difficile l’introduzione di quella flessibilità di cui la Pa ha assoluto bisogno.

La logica manageriale e del buon senso deve, tuttavia, passare “sul corpo” di un sindacato vecchio che deve ripensare la propria natura, ma anche – e anche questa è una contraddizione – di una dirigenza che è chiamata a gestire lo stesso cambiamento che la mette in discussione. E tuttavia al cambiamento non abbiamo alternative. Esso è indispensabile per creare una prospettiva per i lavoratori che non sono tutelati. Per i dipendenti pubblici che non si rassegnano al declino. Persino per i sindacati e per i burocrati che non possono immaginare di chiudersi in un castello di privilegi sollevando il ponte levatoio, perché quel castello si sta sgretolando e, tra un anno, sarà esaurito anche l’ossigeno di Mario Draghi.

La questione del costo delle riforme è la contraddizione che ci ha, finora, impedito di investire in innovazione e in futuro. Riuscire a separare la questione della quantità delle risorse da quella di come gestisco quelle che sono disponibili, è essenziale per riuscire là dove si sono inceppate almeno quattro ambiziosi tentativi nati con l’idea di cambiare tutto e finiti con il non cambiare assolutamente nulla.