Il petrolio a basso prezzo un’occasione irripetibile

di Romano Prodi
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Sabato 25 Aprile 2015, 22:49 - Ultimo aggiornamento: 23:58
Come sostenuto da più parti, le favorevoli, o forse è meglio dire, le meno sfavorevoli prospettive sul nostro sviluppo si fondano in buona parte sulla politica monetaria della Banca Centrale Europea, sulla svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro e sul crollo del prezzo del petrolio e del metano, di cui l’Italia è un grande importatore. Quanto alla politica della Bce, si prevede che questa persista almeno fino alla fine dell’anno e, in ogni caso, come ha assicurato Draghi, fino a quando sarà necessario. Teniamo tuttavia presente che la durata della necessità non è dettata dall’Italia, ma dall’intera Europa che marcia ad una velocità di almeno un punto superiore a quella italiana.

Ancora più complessa è la previsione sulla permanenza di un euro debole nei confronti del dollaro perché stanno crescendo le posizioni contrarie all’interno degli Stati Uniti e, soprattutto, si levano alte le proteste di molti paesi in via di sviluppo che, pesantemente indebitati in dollari, faticano a fare fronte ai conseguenti pagamenti del debito. Quasi impossibile è infine la previsione sull’andamento dei prezzi petroliferi, riguardo ai quali è tuttavia utile fare qualche ragionamento. Prima di tutto i precedenti. Nelle ultime due crisi petrolifere (del 1985-86 e 1997-99) sono stati necessari rispettivamente 16 e 36 mesi per recuperare la caduta dei prezzi. Un periodo tuttavia sufficiente per vedere sconvolta l’intera geografia del mondo petrolifero.



In conseguenza della crisi del 1997-98 abbiamo infatti assistito ad un’impressionante ondata di fusioni. La Exxon ha assorbito la Mobil, la Bp l’Arco e l’Amoco, la Chevron la Texaco e la Total la Petrofina e l’Elf-Aquitaine. In poche parole le sette sorelle si sono mangiate fra di loro e sono rimaste sostanzialmente quattro, nella convinzione che la dimensione facesse la differenza. Con la ripresa del mercato, i superstiti si sono impegnati in progetti sempre più complessi e costosi (4.000 miliardi di dollari tra il 2003 e il 2013) in larga parte pagati col ricorso al debito. Nonostante l’aumento vorticoso dei prezzi, i profitti delle super-majors sono saliti solo marginalmente. Segno che le grandi fusioni di grandi progetti di investimenti non avevano generato valore, mentre i loro bilanci erano ulteriormente appesantiti da una troppo generosa politica di dividendi voluta da azionisti sempre più famelici e dalle preferenze dei mercati finanziari. I debiti di molte imprese, con i prezzi di mercato di oggi, appaiono perciò difficilmente sostenibili.



La crisi in corso ha già provocato la prima grande fusione quando, quindici giorni fa, la Shell ha acquistato la British Gas, consolidando la sua posizione di seconda impresa del mondo occidentale dopo la Exxon-Mobil. È difficile dire se seguiranno altre acquisizioni, ma la stagione della caccia può dirsi ufficialmente aperta e ben pochi sembrano i produttori invulnerabili. Nelle passate sfide l’Eni ha seguito una strategia differente - e tutt’altro che perdente - rispetto a quelle dei suoi ben maggiori concorrenti. Ai grandi acquisti ha preferito una crescita organica, ampliando la sua internazionalizzazione, migliorando l’efficienza interna e mettendo in atto solo acquisizioni di limitata rilevanza, come British Borneo e Lasmo. I tassi di scoperta di nuove riserve sono stati ampiamente superiori alle performance delle super-majors. Oggi l’Eni, pur essendo rimasta di dimensioni minori rispetto ai grandi concorrenti, è tra i primi detentori di riserve del continente africano, operando soprattutto, oltre che in Libia, in Mozambico, Angola e Congo.



Per portare a produzione queste riserve occorrono tuttavia ingenti mezzi finanziari che difficilmente possono essere reperiti nel mercato in un periodo di bassi prezzi del petrolio, anche se l’Eni stessa ha saggiamente deciso di diminuire i dividendi destinati ai propri azionisti. La nostra maggiore impresa petrolifera si trova perciò di fronte a scelte strategiche di enorme importanza, scelte che esigono una politica attiva da parte dello Stato in quanto tale e in quanto azionista di controllo del Gruppo che - vale sottolineare - è elemento fondamentale ed insostituibile della struttura produttiva italiana.



Pur nella difficoltà delle previsioni è improbabile pensare ad una rapida ripresa dei prezzi, anche se, ultimamente, si è verificato un aumento da 45 a 60 dollari al barile. Nonostante il quasi azzeramento della produzione libica, le scorte petrolifere rimangono ai massimi storici e in alcuni paesi, tra i quali la Cina, si stanno costruendo nuovi immensi serbatoi. L’Arabia Saudita ha aumentato la sua produzione oltre il livello record di 10 milioni di barili al giorno, dichiarando di volerla mantenere anche in futuro, mentre la produzione americana, nonostante i suoi più alti costi, continua a essere molto elevata. Si profila inoltre all’orizzonte un possibile ritorno dell’Iran tra i protagonisti del mercato mondiale. Questo paese, che produceva quarant’anni fa sei milioni di barili di petrolio al giorno, ne estrae oggi meno della metà e ne esporta ancora meno, a causa dell’embargo e dell’invecchiamento delle sue tecnologie, anch’esse vittime dell’embargo.



Se, come tutti noi speriamo, gli accordi di fine maggio andranno in porto, i mercati si troveranno di fronte a un nuovo poderoso aumento dell’offerta, con la probabile conseguenza di prezzi bassi per un periodo di tempo almeno pari a quello delle passate crisi. Pur ribadendo l’aleatorietà di ogni previsione vi sono quindi oggi fondati elementi per sperare che il vento favorevole che comincia finalmente a soffiare nelle vele dell’economia europea possa durare per uno spazio di tempo abbastanza lungo da permettere un bel respiro anche all’economia italiana. Cerchiamo quindi di rendere i nostri polmoni capaci di respirare.