Giuseppe De Rita (Censis): «Ma i ragazzi sono rassegnati, c'è salvezza solo per i migliori»

Giuseppe De Rita (Censis): «Ma i ragazzi sono rassegnati, c'è salvezza solo per i migliori»
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Domenica 22 Aprile 2018, 09:27
Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, grande sociologo, ha appena pubblicato un libro monumentale: «Dappertutto e rasoterra» (Oscar Mondadori). Ripercorre in queste pagine 50 anni di storia della società italiana e pochi come lui sanno analizzare i grandi e i piccoli mutamenti. Il confronto tra le generazioni, nel corpo della nazione, è uno dei grandi fenomeni e su questo De Rita è illuminante.
Professore, gli anziani sempre più longevi e garantiti, i giovani sempre meno numerosi e precari. Lo squilibrio, devastante per il sistema pensionistico, può creare una guerra generazionale?
«Questo tipo di conflitto non doverebbe stupire. Il Risorgimento fu anche una guerra generazionale. Per certi versi, lo è stata anche il fascismo. Per non dire del 68. Il 68 ha fallito per molti aspetti. Ma in un senso è stato utile: ci ha mitridatizzato rispetto a una guerra generazionale».
Cioè?
«Da allora si è capito che il tempo di questo tipo di conflittualità è finito. E' stato un vaccino il 68. E ora, non ci sono più le condizioni igienico-sanitarie per una rivolta dei giovani».
Purtroppo?
«Così è. Ci sono giovani che hanno bisogno di crescere, di andare avanti, hanno tutte le potenzialità per farlo, lo fanno. Non si mettono dentro il melting-pot di un discorso generazionale, che considerano superato - a differenza dei ragazzi del 68. Vanno all'estero i giovani d'oggi, creano start-up o puntano all'eccellenza in Italia dove ci sono ottime università. Rottamare i vecchi, che oltretutto sono tenacemente aggrappati a quel che hanno e che non vogliono minimamente cedere, non è in cima ai loro pensieri».
Lei però sta parlando dei giovani migliori. E tutti gli altri?
«I conflitti generazionali, si veda appunto il Risorgimento, li hanno fatti i migliori. Gli altri si arrangiano».
Ma l'ingiustizia di dover mantenere i vecchi, molto più garantiti di loro, non è motivo giusto per smuoverli?
«Certo che lo sarebbe. E il problema della sostenibilità del sistema pensionistico è enorme. Però, l'unica cosa che potrebbe cambiare questo squilibrio profondo sarebbe una politica nuova, veramente riformista e una classe dirigente che sia consapevole della necessità di un passaggio storico, non indolore. Nuova politica coraggiosa ed élites che sappiano comportarsi come tali io però al momento non le vedo. Osservo invece una rassegnazione tra i giovani. Nelle società occidentali categorie unitarie non esistono più. Ognuno pensa a se stesso, sia i giovani sia i vecchi. C'è il primato della soggettività in quanto individui e non come categorie. Gli anziani, affezionati al proprio presente finché dura, non svolgono il ruolo di trasmettere di qualcosa, non agiscono come una catena. E i giovani lo stesso. Non hanno l'idea della successione. Ognuno, dentro queste categorie che non sono più categorie, pensa al proprio singolo presente. Il presentismo è la vera cifra della società italiana oggi».
I vecchi restano abbarbicati ai loro privilegi?
«Non c'è più la benedizione di quello che dice: dopo di me, tocca a te. Il discorso è un altro: finché campo, penso a me e tu t'arrangi. Prima, di uno, si diceva è antico: lantico patriarca. Poi s'è cominciato a usare l'aggettivo vecchio. Ora diciamo longevo. La longevità può durare a lungo. Perciò non prevede il concetto di trasmissione. Vince un altro comportamento: mi godo il presente. Punto».
Scusi, però, quello dei giovani non è un presente molto godurioso.
«Vero, ma non importa. Anche se il presente offre pochissimo, resta quello l'orizzonte: mio godo il quasi niente che ho. Per esempio l'essere mantenuto dalla famiglia, per quel poco che la mia famiglia riesce a darmi. La storia è fatta di conflitti, ma se la prospettiva non è storica il conflitto non può esserci».
Ma come fa a credere che la bonaccia possa durare?
«Non mi auguro che duri. Dico soltanto che serve una classe dirigente che smuova le cose, che riattivi tutto, che si faccia carico di un dialogo vero con l'Europa, con l'impresa, con la modernità e che si faccia carico di un passaggio storico anche durissimo. Serve una scossa che trascini tutto. E che dica la verità ed è questa: la spesa pubblica, il welfare come lo abbiamo conosciuto finora, non riescono a dare tutto a tutti. Ci saranno tensioni forti, appena si trova una classe dirigente consapevole di questi problemi. E voglio ricordare che chi ha cercato di fare riforme si è preso gli insulti non dei giovani ma degli anziani».
Padri e nonni non potrebbero fare sacrifici per figli e nipoti spontaneamente, visto che i giovani non li obbligano?
«Ma figuriamoci. Il giovane, parlo almeno di quelli migliori, se sente il sacrificio del genitore s'acquatta. Vuole la sua soggettività anche in questo. Mi dai soldi per tua iniziativa personale? No, io voglio i soldi ma ti dico io per che cosa. Perché voglio andare in quella università, perché voglio frequentare quel master. Spesso non ci sono le condizioni per queste aspirazioni, e ognuno resta nel proprio presente. Presentismo e soggettività sono i caratteri degli italiani oggi. La soggettività è un valore in questo Paese, nel bene e nel male. Nel bene, perché tutta l'economia italiana - come abbiamo registrato in tutti questi decenni nei rapporti del Censis e ora nel libro appena pubblicato - nasce da una spinta autonoma. E nel male, perché la soggettività può diventare individualismo, narcisismo, egolatria. Sia nei giovani sia nei vecchi, anzi nei longevi».
Mario Ajello
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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