Il ruolo di Roma/Il futuro di Alitalia e la strategia del Paese

di Osvaldo De Paolini
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Venerdì 27 Aprile 2018, 00:05
Bene ha fatto il governo Gentiloni a prorogare a fine ottobre la conclusione della gara per l’assegnazione di Alitalia. Vista la situazione di stallo nel confronto politico, sarebbe parso inconcepibile che il governo dimissionario avviasse a conclusione l’asta sulla compagnia aerea. Questi sei mesi di tempo ulteriore debbono però servire soprattutto a fare chiarezza su quale futuro riservarle, non solo in relazione ai conti aziendali e ai livelli occupazionali, ma anche alla missione del vettore nell’ambito delle attività - turistiche e non solo - che il prossimo governo sarà chiamato a pianificare per sostenere la crescita. 

Sicché l’ex compagnia di bandiera ha davanti a sé un bivio: a) cessione tout court ad altra più solida compagnia, ovviamente straniera, con conseguente dimensionamento occupazionale e della connettività dentro e fuori il Paese; b) ritorno sulla scena dello Stato, sia pure parzialmente e magari in accordo con un soggetto italiano finanziariamente capace, che in partnership con altri vettori internazionali ne pianifichi il rilancio sotto l’insegna tricolore. In tempi di libera circolazione delle persone e dei capitali l’italianità non può essere un valore fine a se stesso, ma è certamente da perseguire se cavalcata con finalità di sistema. E comunque è anche dall’epilogo della vicenda Alitalia che si potranno misurare la visione e gli scopi della nuova classe politica.


Esattamente un anno fa, il premier Paolo Gentiloni avvertì che Alitalia era ormai in condizioni tali che la liquidazione pareva imminente. Si decise perciò di affidarla a tre commissari straordinari nel tentativo di salvare il salvabile e quindi procedere alla cessione al miglior offerente di quel che restava, fosse anche a pezzi. Per favorire il tentativo di make up, il Tesoro concesse alla compagnia due prestiti per complessivi 900 milioni al tasso quasi usurario del 10% onde evitare che Bruxelles contestasse di default l’aiuto di Stato (la procedura d’infrazione verrà comunque aperta, sebbene con esiti che si potranno conoscere solo fra molti mesi).

Contro ogni pronostico, un anno dopo l’allarme di Gentiloni il miglioramento dei conti è tale che dei 900 milioni destinati a sopperire l’eventuale mancanza di cassa, non è stato toccato un solo centesimo. Nel frattempo il 60% del management di prima linea è stato cambiato, la politica commerciale rivoluzionata, la vendita di biglietti cresciuta al ritmo del 5-6% mentre le agenzie internazionali hanno promosso Alitalia ai primi posti nelle classifiche per efficienza e puntualità. Vale allora domandarsi: perché cederla adesso, visto che finalmente è tornata a volare entro rotte promettenti? Anzitutto va precisato che sebbene i principali indicatori volgano al bello, la ristrutturazione aziendale - anche sul fronte dell’occupazione - non è completata.

In secondo luogo, è inimmaginabile che la gestione commissariale, per definizione limitata nel tempo, possa proseguire oltre i confini stabiliti, già piuttosto ampi. In terzo luogo, è bene ribadire che senza una iniezione di nuovo capitale per almeno 1 miliardo, Alitalia avrà comunque vita breve. Perché se è vero che l’attività più redditizia per una compagnia aerea sono le tratte a lungo raggio (la cui richiesta non a caso sta crescendo a doppia cifra anche in casa Alitalia), l’attuale flotta della compagnia italiana, troppo sbilanciata sul breve-medio raggio, è del tutto inadeguata a rispondere con successo alla sfida globale. Quindi la massa critica necessaria può essere raggiunta solo acquistando, con quel miliardo, un certo numero dei più moderni aerei da lungo raggio.

Oggi Alitalia non dispone di quel miliardo, per questo i tre commissari sono in cerca di un partner (o più partner in cordata) in grado di orientare e sostenere la compagnia verso quella meta. Il punto è che fino a questo momento le ipotesi di offerta dei potenziali compratori sembrano voler finalizzare l’intervento, anche in termini di sostegno finanziario, a una sopravvivenza poco più che gregaria della compagnia italiana, con sicuro pregiudizio per gli attuali livelli occupazionali; ma soprattutto con mortificazione della connettività di cui ha bisogno il nostro sistema economico. È infatti prevedibile che chiunque riesca ad assicurarsi il controllo della compagnia, entro breve ne faccia una sussidiaria concentrando nella casa madre (estera) i maggiori vantaggi rivenienti dall’acquisizione: non è un timore, è una prassi. Per questo è indispensabile che alla nuova compagine azionaria vengano imposti limiti operativi.

E ciò sarà possibile solo con la presenza significativa dello Stato nel capitale di Alitalia, meglio se attraverso la Cassa depositi e prestiti in accordo con un imprenditore nazionale che ne caratterizzi il percorso.
Per il nostro Paese, la compagnia che sulla coda ancora oggi si fregia del tricolore vale 3 miliardi di Pil e 600 milioni in stipendi ogni anno; dal punto di vista del posizionamento geografico, è poi tra le più appetite per chi voglia dominare i cieli d’Europa; inoltre, per lo sviluppo del turismo nella Penisola e nelle sue diverse declinazioni - che se gestito con lungimiranza può diventare un formidabile motore di crescita delle regioni del Sud - può rivelarsi una leva cruciale; per non dire, infine, del fatto che la sua permanenza a Roma consentirebbe alla città di non perdere il ruolo di sede della compagnia oltre a impedire l’ulteriore desertificazione del tessuto produttivo che in questi anni troppi colpi ha subito.

Se nel recente passato sono stati commessi gravi errori a causa di un management inadeguato e dell’utilizzo indebito delle risorse finanziarie, non è detto che non si possa riprovare con una strategia più meditata: il successo della gestione commissariale è la prova che un rilancio “italiano” è possibile. Ed è qui che si misurerà la visione del nuovo governo e la sua capacità di trasformare una sconfitta in una opportunità per il Paese.
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