Facebook, i dati manipolati, quando l'utente del web diventa una merce

Facebook, i dati manipolati, quando l'utente del web diventa una merce
di Sebastiano Maffettone
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Lunedì 19 Marzo 2018, 15:30
Un'indagine del New York Times e del Guardian rivela che Cambridge Analytica, una discussa società di analisi politiche, ha avuto un'influenza probabilmente decisiva sia nella campagna elettorale di Trump sia nel Referendum sulla Brexit. Per riuscirci, Cambridge Analytica ha ottenuto e manipolato dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook. Gli articoli sono usciti poche ore dopo un post con cui Facebook stessa aveva sospeso gli account di Cambridge Analytica. La gravità della vicenda, oltre al fatto che lo stesso procedimento potrebbe essere stato usato o sarebbe adoperabile nel futuro anche in altri Paesi incluso l'Italia, rendono una riflessione in materia urgente e indispensabile.

Siamo consapevoli da tempo del fatto che l'Intelligenza Artificiale e le tecnologie che ne derivano stanno cambiando il modo tradizionale di vedere il mondo. Proprio per ciò, le ICTs (Information and Communication Technologies) sono state studiate negli ultimi anni non solo dal punto di vista della scienza e delle sue applicazioni ma anche dal punto di vista del loro impatto etico, sociale e ontologico. In particolare lo sono stati temi che riguardano la privacy, la proprietà intellettuale, l'accuratezza dell'informazione, l'hacking, la digital divide, la libertà di espressione e i suoi limiti, e così via.

SEPARAZIONI
Il fatto evidente è che non esiste oggi come oggi una economia digitale separata dall'economia reale. Sarebbe come distinguere l'industria elettrificata e non. Ovvero, non esistono attività industriali, commerciali, di servizi in genere che non utilizzino per tutte, o parte delle loro attività, la digitalizzazione. La novità, o almeno la parziale novità, è che lo stesso sembra accadere per la politica. Nella nuova economia 4.0, come spesso la si chiama, le aziende collocano il cliente al centro della catena del valore, rispondendo con rapidità alle sue richieste di servizio o ai reclami. Quello che risulta meno evidente è che in questo universo economico l'utente web è solo merce e la privacy il suo prezzo. Come ha sostenuto Andrew Lewis (Matrix RE-Imprinting), «se non stai pagando non sei il cliente, sei il prodotto venduto». Si comincia dal fatto che per ogni sito che visitiamo ce ne sono almeno altri quattro che raccolgono dati personali su di noi. E si arriva al risultato che c'è un'industria da miliardi di dollari nella quale queste informazioni sono merce di scambio per i pubblicitari. Questa industria non commette crimini - dopotutto è solo pubblicità! - ma tutte le informazioni che si raccolgono possono, potenzialmente, creare un profilo completo di ognuno di noi dal nome all'indirizzo, dalle preferenze politiche a quelle sessuali, dalla capacità di acquisto alle marche preferite. E non c'è tutela, poiché visto che non sei il cliente, non hai nessun tipo di contratto. Non hai così controllo sui dati raccolti che potrebbero includere informazioni personali sensibili e alla cui privatezza tieni.
Non è facile trovare norme legali ad hoc, dato che il problema è il paradigma in quanto tale: se il web ha bisogno della pubblicità, e quest'ultima del tracking, allora, per proteggerci, bisogna fare in modo che tramonti l'idea di utente come prodotto, per renderlo un cliente.

TECNICHE
La cosa è grave perché sempre di più risulta chiaro che questo tipo di pubblicità è pervasivo: vendere un partito politico o un candidato alle elezioni è eguale a vendere un dentifricio per chi adopera professionalmente questo tipo di tecniche. Peggio che mai, l'informazione ricavata dal web rivela pregiudizi e valori dell'utente, pregiudizi e valori che possono essere prima rinforzati e poi manipolati a fini politici da chi ne sia capace. Finora, per quello che se ne sa, sembra che qualcosa del genere si stato fatto solo per favorire opzioni che in senso lato chiamiamo populiste, da Farage a Bannon tanto per capirci. Ma tutto ciò può modificare completamente il senso della democrazia. Anche perché tempi e i modi delle ICT non sono propriamente compresi dalla politica che non è in grado di inquadrarli nell'ambito dei suoi processi discorsivi e deliberativi tradizionali.

Che fare allora? Esistono due modi contrapposti per reagire. Il primo consiste nel tentativo politico reazionario di reprimere il progresso tecnologico. Il secondo nell'aumentare la capacità del sistema politico di interagire con le tecnologie informatiche. Anche se azioni di controllo e polizia sono indispensabili, è fin troppo facile optare per la seconda opzione. Che deve cominciare con la consapevolezza diffusa di quanto sta accadendo. Il fondatore di Twitter, Evan Williams, ha di recente dichiarato: «Una volta pensavo che dando la possibilità a tutti di scambiare liberamente idee e informazioni, il mondo sarebbe automaticamente diventato un luogo migliore: mi sbagliavo».
Alla luce dell'inchiesta NYT-Guardian ciò sembra quanto mai vero e attuale. Ma la stessa inchiesta ci dice che un'informazione seria denuncia i rischi che stiamo correndo. In modo che cittadini e politici possano avvantaggiarsi della trasparenza e preparare nel tempo risposte adeguate.

 
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