Se l'economia digitale inquina più delle raffinerie

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di Giovambattista Palumbo*
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Giovedì 15 Settembre 2016, 10:16 - Ultimo aggiornamento: 7 Marzo, 18:27
In Italia, secondo le ultime valutazioni del FMI, i sussidi alle fonti fossili ammontano a 13,2 miliardi di euro. La Commissione Europea, nelle Raccomandazioni del 2015 (Country Specic Reccomendations), ha invitato il Governo ad introdurre forme di fiscalità in grado di orientare il mercato verso modi di consumo e di produzione sostenibile, e alla modulazione delle accise sui prodotti energetici e sull’energia elettrica, anche in relazione al contenuto di carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e di zolfo.

Il maggior gettito generato dalla green economy, secondo quanto previsto dalla legge delega n. 23/2014, potrebbe essere del resto destinato anche ad una riduzione della pressione fiscale sui redditi. Intervenire su alcuni di tali sussidi, o introdurre delle forme di fiscalità ambientale (green taxes), potrebbe infatti portare notevoli risorse finanziarie, da usare eventualmente anche in Legge di Bilancio.

I costi ambientali calcolati in relazione alle emissioni nocive (gas serra, inquinanti etc) ammontano del resto a ben 48,3 miliardi di euro (fonti ECBA project). E la tassazione di tali fattori, oltre a fornire maggiori entrate, porterebbe senz’altro impatti postivi sia sull’ambiente che sulla salute pubblica, se solo si pensa che, rapportando i costi di un’impresa o di un settore, in termini di danni ambientali e sanitari, al beneficio economico netto direttamente apportato alla collettività dalla stessa impresa o dallo stesso settore, le attività economiche italiane generano mediamente 24 euro di danni ambientali e sanitari ogni 1000 euro di valore aggiunto prodotto.

E peraltro, quando parliamo di inquinamento non bisogna pensare solo alle emissioni prodotte da raffinerie, acciaierie, industrie chimiche, sottovalutando, per esempio, quell’inquinamento ‘invisibile’ prodotto dal mondo digitale. I data center, strutture complesse di immagazzinamento di dati, secondo uno studio dell'Agenzia francese per l'ambiente ed il controllo energetico (Ademe), sono infatti tra i primi responsabili delle emissioni di CO2 nel mondo.

Tre e-mail generano la stessa CO2 prodotta percorrendo 1 km in auto; un server produce ogni anno da 1 a 5 tonnellate di CO2. L’inquinamento da telecomunicazioni in sette anni avrebbe aumentato del 300% le emissioni di CO2 in atmosfera. E una conferma arriva dagli ultimi dati diffusi dall’Ue, secondo i quali sul 100% di emissioni totali in Europa (che comprendono allevamenti intensivi, riscaldamenti civili ed industriali, aviazione, trasporto su gomma, raffinerie e acciaierie) la quota di maggioranza relativa (6%) spetta ai Data Center.

Dati questi che confermano ancor di più la necessità che anche l’economia digitale paghi il suo contributo alle casse erariali. A livello internazionale sono del resto numerosi i Paesi che hanno introdotto sistemi di tassazione del carbonio, dal Cile al Messico, agli Stati Uniti (nove Paesi del Nord est). La fiscalità ambientale sarebbe inoltre, senz’altro, un volano efficace per trasformare l’economia in una direzione più efficiente e competitiva, come ripetutamente sottolineato da Ue e Ocse, laddove la Commissione europea ha più volte invitato a tassare i prodotti più inquinanti, spostando gradualmente il prelievo dai fattori produttivi ai consumi ambientali. E potrebbe essere una misura infrastrutturale chiave per la crescita sostenibile.

*Direttore politiche fiscali Eurispes
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