Concorrenza e liberalizzazioni, il ritardo pesa sul Pil

di Luigi Tivelli
3 Minuti di Lettura
Giovedì 24 Novembre 2016, 00:03
Il lungo, intricato e faticoso iter della legge annuale sulla concorrenza (che poi annuale non è perché è solo la terza da quando fu istituita nel 2009 ad oggi) ci aiuta ad evidenziare due malattie collegate che pesano sulla politica, sull’economia e sulla società italiana: il mal di concorrenza e il mal di merito. Non ci può essere, infatti, vera meritocrazia laddove non c’è vera concorrenza e non ci può essere vera concorrenza laddove non c’è vera meritocrazia. Quanto alla concorrenza, il caso dell’ultima legge annuale è eclatante: una legge che contiene alcune pur limitate liberalizzazioni in alcuni sotto settori del mondo assicurativo, delle farmacie, delle professioni forensi e notarili ed altri, che ha iniziato il suo iter alla Camera nell’aprile del 2015 (già ben in ritardo rispetto all’approvazione governativa). Per un verso, è stata ampiamente svuotata nel suo pur limitato impatto innovatore, per altro verso, ancora aspetta l’appuntamento con l’Aula del Senato dopo il quale, con ogni probabilità, dovrà tornare alla Camera. Può bastare questo per dimostrare come il Parlamento abbia una considerazione ancora più riduttiva di quella del Governo delle esigenze della concorrenza e delle liberalizzazioni, pronto com’è, invece, a cogliere e recepire istanze ed emendamenti di lobby, categorie e corporazioni varie che vanno in direzione esattamente opposta. 
Eppure, già nel 2009, anno di istituzione della legge annuale sulla concorrenza, la Banca d’Italia aveva evidenziato che se in alcuni settori si giungesse a livelli di concorrenza analoghi a quelli degli altri Paesi dell’area euro il Pil potrebbe aumentare nel medio periodo dell’11 per cento. La leva della concorrenza è quindi una leva fondamentale per la politica economica oltre che per l’equilibrato funzionamento dei mercati e per redistribuire le opportunità tra i cittadini e le imprese. 

Quanto alla meritocrazia, che della concorrenza è gemella, è stato recentemente messo a punto per la prima volta da un team di ricercatori dell’università Cattolica il meritometro, il primo indicatore di sintesi e misurazione dello stato del merito in un Paese. Un indicatore basato su i sette pilastri del merito: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza, mobilità. Per ognuno di questi pilastri è stato scelto un indice o una graduatoria internazionale di riferimento (ad esempio per la libertà l’index of economic freedom e per la trasparenza il corruption perception index). Ebbene, mettendo insieme queste graduatorie, l’Italia, quanto a meritocrazia, si conferma in ultima posizione nel ranking complessivo e in quello relativo ai singoli pilastri tra i dodici principali paesi europei considerati, a quaranta punti di distacco dalla Finlandia, trenta dalla Germania, venti dalla Francia, sedici dalla Polonia e dodici dalla Spagna. Questo significa che se non si avviano al più presto politiche e azioni di rafforzamento su tutti i pilastri, a cominciare da quelli che riguardano più direttamente il futuro dei giovani e la capacità del Paese di generare opportunità, la decadenza procederà. 

Così come per la concorrenza, puntare sulla meritocrazia significa favorire ancora la crescita e liberare le vere risorse del Paese. Se decine di migliaia di giovani talenti o laureati di buon livello fuggono all’estero ormai da vario tempo è proprio perché l’Italia è diventata una società mangiagiovani e l’ascensore sociale si è bloccato grazie anche alla sostanziale assenza di meccanismi e canali meritocratici nell’università, nella pubblica amministrazione e in varie aree del mondo del lavoro. 
Forse perché, grazie al meccanismo di selezione e alla legge elettorale vigente, sono andati a sedersi sui loro scranni parlamentari grazie a tutto tranne che a meccanismi di sana concorrenza e meritocrazia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA