Verrà raggiunta? Lo sapremo nei prossimi giorni o, al massimo, nelle prossime settimane. Intanto, il fatto saliente è che nel giro di un anno esatto il cambio euro/dollaro è sceso di oltre il 23%. Ancora a fine giugno 2014 la moneta unica europea valeva più di 1,36 sulla moneta americana. Alla fine del terzo trimestre dello scorso anno era già scivolata poco sopra 1,25 stabilizzandosi intorno a questo livello fino a metà dicembre.
Da quel momento, man mano che la decisione sul Qe europeo è apparsa sempre più vicina, si è concretizzata la seconda fase di ribasso ininterrotto del cambio, un deprezzamento di quasi il 15% in tre mesi. C’è anche chi teme che il deprezzamento dell’euro stia avvenendo troppo rapidamente e possa creare qualche problema di spiazzamento ad alcuni operatori industriali e bancari eccessivamente esposti con debiti in dollari.
In generale, però, l’indebolimento della moneta unica è visto positivamente da analisti e imprese. Sia per i suoi effetti sull’aumento della competitività dei Paesi dell’Eurozona (che è un effetto multiplo, considerando che l’euro si sta svalutando simultaneamente non solo verso il dollaro ma anche verso la sterlina, lo yen, il renminbi cinese, il franco svizzero). Sia per il contributo che l’euro debole potrà dare a un moderato incremento dell’inflazione, visto che fino a questo momento l’Uem sembrava sull’orlo di precipitare in una pericolosa deflazione.
Le esportazioni dei Paesi dell’Uem, tra cui l’Italia, si avvantaggeranno verso i mercati che in questo momento stanno dimostrando di poter crescere di più, con benefici consistenti per il made in Italy della meccanica, degli autoveicoli, della moda e dei mobili. Tra i Paesi con la domanda col vento in poppa che l’Italia potrà aggredire con ancora più forza vi sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Già nel 2014 l’export italiano verso gli Stati Uniti è cresciuto di oltre il 10%, toccando 29,8 miliardi di euro, con un surplus commerciale record per il nostro Paese di 17,3 miliardi. In gennaio, spinto dall’euro più debole, l’export italiano verso gli Usa è aumentato addirittura del 24,4% rispetto a gennaio 2014. Per quanto riguarda il Regno Unito, nel 2014 le nostre esportazioni verso quel Paese sono invece cresciute del 6,6% portandosi a 20,9 miliardi di euro, con un surplus di 10,8 miliardi.
L’Italia guadagnerà inoltre competitività nell’Eurozona stessa rispetto a concorrenti extra-europei forti nei beni per la persona o la casa, come la Cina su tutti, la cui moneta è legata al dollaro. Ciò favorirà anche il reshoring (cioè il rientro in Italia di produzioni de-localizzate) e renderà più attrattivi non solo i beni del lusso ma anche quelli della fascia media di prezzo del made in Italy in Paesi che sono nostri importanti clienti come la Germania, la Francia o la Spagna. Non bisogna tuttavia attendersi miracoli, perlomeno a breve, dall’impatto che il mini-euro potrà esercitare sull’export.
Infatti, se il cambio più favorevole, rendendo le nostre merci più competitive, sosterrà sicuramente le esportazioni nei Paesi dove l’economia “tira”, non sarà facile accrescere le vendite in molti altri Paesi dove, per varie ragioni, le condizioni di domanda di beni esteri purtroppo non sono buone: per ragioni geo-politiche (Russia, Ucraina, Libia), per il ribasso del petrolio che ha ridotto le entrate di molte economie (problema che riguarda praticamente tutti i Paesi Opec), per le forti svalutazioni già occorse nel 2013 alle valute di alcuni Paesi che da allora hanno visto ridursi notevolmente il loro potere d’acquisto (Brasile, India, Turchia), o per il rallentamento stesso della crescita di alcuni Paesi emergenti che prima galoppavano e che ora invece stanno stabilizzando il loro modello di sviluppo (Cina).
In definitiva, l’euro debole aiuta, ma per rilanciare davvero l’economia dell’Eurozona e quella italiana, come ha giustamente sottolineato il ministro Padoan, servono anche e soprattutto le riforme ed efficaci piani di investimento per la crescita interna.