Assemblee societarie/ Più vigilanza su chi rappresenta le minoranze

di Osvaldo De Paolini
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Sabato 18 Marzo 2017, 08:57 - Ultimo aggiornamento: 11:38

Il caso delle 1.655 deleghe gestite da un singolo professionista durante l'assemblea di Unicredit che poche settimane fa ha varato il più imponente aumento di capitale (13 miliardi) mai visto a Piazza Affari, ripropone il tema delle rappresentanze azionarie nelle società quotate e delle finalità non sempre trasparenti di chi è chiamato a tutelare i diritti delle minoranze. Per chi segue le vicende di mercato, l'argomento è di grande attualità.

Proprio in queste settimane si apre la stagione delle assemblee societarie. E dunque, grazie alla rivelazione del Fatto Quotidiano, si è appreso che quelle 1.655 deleghe rappresentano un totale di 2,99 miliardi di azioni equivalenti al 93% della forza presente in quell'assemblea. In altre parole, l'avvocato milanese Dario Trevisan, titolare unico di quelle deleghe (per gran parte affidate a blocchi da fondi internazionali), con il suo singolo voto ha determinato l'esito della più importante assise azionaria nella storia del colosso bancario.

OLTRE IL MANDATO
Sia chiaro, la legge attuale non lo vieta, e tuttavia vale interrogarsi se il cumulo di tante deleghe sia funzionale all'interesse dei soci di minoranza che si vorrebbero rappresentare. Si pensi per esempio all'ipotesi di cambio di orientamento del dibattito durante l'assemblea: che dovrebbe fare il delegato che dispone di 1.655 deleghe? In teoria telefonare a ciascun azionista per chiedere istruzioni. Impensabile. E dunque si troverà costretto ad assumere un voto che nei fatti travalica il mandato ricevuto, rischiando di disattendere la volontà del delegante. Di qui la necessità che il legislatore riduca fortemente la facoltà di cumulo delle deleghe, imponendo maggiore precisione nelle indicazioni di voto e quindi una moralizzazione nel loro utilizzo.

PROMOZIONE E TUTELA
Una proposta, questa, della quale Assogestioni - cui aderiscono le principali società di gestione del risparmio italiano - dovrebbe farsi carico con determinazione e senza indugio. Rientra infatti nei suoi compiti statutari non solo la promozione e la tutela delle diverse forme di gestione del risparmio a sostegno dell'economia, ma anche la difesa degli interessi dei risparmiatori con attività propositiva. A sua volta la Consob dovrebbe accendere un faro su uno dei compiti più delicati tra quelli affidati all'associazione guidata da Tommaso Corcos, un gestore tra i più apprezzati e certamente meritevole di rappresentare la categoria, sebbene forse troppo distante dall'attività quotidiana dell'associazione. Sarebbe infatti auspicabile maggiore trasparenza - non solo formale - nel processo di designazione delle liste dei rappresentanti delle minoranze da proporre alle assemblee societarie per la formazione dei nuovi consigli di amministrazione.

Vero è che formalmente Assogestioni, avendo affidato al cosiddetto Comitato dei gestori a geometrie variabili la selezione dei candidati, si è di fatto spogliata della responsabilità di quelle decisioni. E tuttavia, poiché a fungere da ufficiale di collegamento tra il Comitato e l'associazione è un incaricato interno, è legittimo pensare che le chinese walls erette a suo tempo non siano rimasta impenetrabile. Soprattutto in considerazione dell'impetuosa crescita del numero di liste presentate e di candidati indicati: basti osservare che durante la campagna assembleare 2016, dal Comitato dei gestori sono state presentate non meno di 44 liste di minoranza destinate a 35 società quotate per l'elezione o la cooptazione di 110 candidati. E ogni anno è un crescendo.
Ma anche a non pensar male, va detto che non è insolito - soprattutto nei consigli di società minori - incontrare casi di molestia in materia di governance dove al fondo dello scavo non è difficile trovare la difesa di interessi particolari, sia pure apparentemente legittimi, diversi da quelli che dovrebbero rappresentare il faro per quanti si ergono a difesa delle minoranze.

I VECCHI DISTURBATORI
Per lungo tempo, fino a metà degli Anni Novanta del secolo scorso, la stagione delle assemblee societarie italiane fu segnata dalla presenza dei cosiddetti disturbatori di assemblee, una particolare categoria di azionisti il cui obiettivo era farsi pagare dalle società una certa somma dietro minaccia di sottoporre agli amministratori quesiti assurdi e pretestuosi, creando confusione tra gli azionisti veri. Nel 1993 il fenomeno raggiunse dimensioni tali da convincere The New York Times ad occuparsene in un servizio dal titolo «Italy's Disturbers Quiet Down». Nell'articolo si facevano i nomi dei più celebri (Marco Bava, Lorenzo Jarach e Bruno Agazzi, ai quali potremmo aggiungere il più enigmatico, Maurizio Bertuzzi) e si pronosticava un declino della specie con finale nelle aule dei tribunali: avvenne davvero.

EREDI SOFISTICATI
Naturalmente, nulla a che vedere con la situazione attuale. Oggi tutto è più felpato, a muoversi dentro e fuori i cda sono professionisti esperti di finanza e di mercato che però non sempre si rivelano di supporto al miglioramento dei bilanci in nome della trasparenza. Questa minoranza ha ben poco in comune con i vecchi disturbatori di assemblee, che talvolta sferravano il loro attacco forti di appena mille azioni e di tanta insulsa retorica. I loro eredi hanno studiato, sono più sofisticati, hanno collegamenti con i grandi fondi di investimento, con gli hedge più aggressivi, talvolta portatori di interessi di raider di professione. Per questo sono più insidiosi e difficili da smascherare. Ma poiché stanno crescendo di numero, Assogestioni deve alzare le antenne se davvero vuole mantenere quell'immagine di casa di vetro che si trova scolpita nel suo statuto.

 
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