Il paradosso dei rifiuti: non esistono

Il paradosso dei rifiuti: non esistono
di Mauro Evangelisti
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Mercoledì 30 Ottobre 2019, 08:43

I rifiuti non esistono. Meglio: seguendo il percorso dell'economia circolare, ciò che gettiamo - i resti del nostro pasto - torna alla casella del via, diventando di nuovo cibo. Questo non significa che sia giusto sprecare, al contrario. Ma come spiega Giovanni De Feo, docente di Ecologia industriale all'Università di Salerno «bisogna anche eliminare il verbo buttare, gettare, allontanare da sé, non dobbiamo pensare a qualcosa di cui disfarci: no, dobbiamo invece, sin dalla produzione industriale, puntare su raccolta, riciclo e riuso».

IL VIAGGIO DELLA QUALITÀ
Per comprendere meglio in che modo i prodotti alimentari che depositiamo nel contenitore della frazione umida diventano, a loro volta, prodotti alimentari, seguiamo insieme Roberto Cavallo, esperto di raccolta differenziata, divulgatore, saggista e autore del libro La Bibbia dell'ecologia, la strada verso l'impianto di compostaggio: «Partiamo dal contenitore dell'umido, sperando che sia almeno come a Milano, meglio ancora come a Treviso, con frazioni estranee inferiori al 5 per cento, perché purtroppo a Roma c'è più del 25 per cento di cose che non sono frazione umida. La qualità del materiale raccolto è importante».

Quando la frazione umida raccolta viene portata all'impianto di compostaggio ciò che si fa è, appunto, una verifica della qualità. «A quel punto c'è un'omogenizzazione: il materiale viene mescolato nella vasca con della corteccia del legno. I nostri scarti umidi sono più ricchi in azoto, abbiamo bisogno del bilanciamento, altrimenti il processo non funziona. Con troppo azoto, volgarmente, puzza. Gli impianti puzzano solo se sono costruiti male o gestiti male. Finito il mescolamento, nell'impianto vengono fatte delle montagnole, alte non più di 2 metri, che vengono più volte rivoltate». La degradazione della materie complesse avviene grazie a microorganismi che hanno necessità di ossigeno. Questo processo può durare da uno a tre mesi.

Successivamente c'è una prima vagliatura e poi si finisce questa fermentazione in un cumulo molto più alto. «Al termine della fase di maturazione, dopo sei mesi, hai il compost che sarà usato come fertilizzante. Di solito è il 50 per cento del materiale iniziale». Il compost finisce nei campi, lo usano gli agricoltori, ed ecco dunque che ciò che abbiamo buttato rientra nella catena alimentare. Se l'impianto di compostaggio è di tipo anaerobico, con la frazione umida si produce anche energia, bio-gas, cioè metano. In questo caso i microorganismi lavorano in assenza di ossigeno. «Con il bio-gas posso produrre calore o energia elettrica; o lo distillo e ci ricavo bio-metano per metterlo in rete o fare funzionare dei motori come quelli dei pullman a metano. Addirittura, in un impianto molto moderno, nel Bergamasco - aggiunge Cavallo - si riesce a recuperare anche una buona quantità di Co2 per il quale c'è mercato nell'industria refrigerante ed alimentare». In sintesi: l'anidride carbonica ricavata dai rifiuti può finire nella bibita gassata che beviamo normalmente.

LE IDEE SUPERATE
Il problema, secondo De Feo, facendo un discorso generale che vada oltre la frazione organica (scarti alimentari), è che bisogna superare la vecchia idea che avevamo dei rifiuti da buttare o distruggere. Dice De Feo: «La prima cosa da fare è ridurne la produzione, questo è chiaro. Ma una volta che abbiamo creato dei materiali, degli oggetti, dobbiamo prima provare riusarli. Quando anche questo non è più possibile, a riciclare. E ci sono materiali che sono vocati per questo, tra cui l'alluminio, l'acciaio, il vetro, la stessa carta, non a caso Comieco sostiene che una scatola di cartone ha sette vite come il gatto. Quella dell'economia circolare, naturalmente, è una utopia a cui tendere. E come tutte le utopie ci aiuta a vivere meglio.

Quando noi facciamo la raccolta differenziata non stiamo buttando via un bene, non lo stiamo gettando. Al contrario lo stiamo raccogliendo per poi avviarlo alla filiera industriale del riciclo». Qui si apre un altro fronte: deve cambiare anche il modo di produrre delle aziende, pensando al riutilizzo del prodotto. «Si chiama eco-design. In ogni oggetto, anche quando viene progettato, bisogna pensare a ciò che è, a ciò che sarà, anche a come gestire il suo fine vita». Resta la grande domanda: esiste un mondo a rifiuti zero? Avremo comunque a che fare con degli scarti, anche alla fine del percorso? Secondo De Feo, in linea con la strategia europea e con l'economia circolare, con i rifiuti che alla fine diventano cibo, bisogna rispettare tutti i vari passaggi: riduzione della produzione, riuso, raccolta differenziata, riciclo, il trattamento dell'umido.

Ma prima dell'ultima casella, la discarica che deve avere un ruolo sempre più minimale, c'è la produzione di energia. «Sbagliamo a chiamarlo incenerimento - chiosa De Feo - in realtà è un recupero energetico. Senza questo, il sistema costa di più e impatta di più. Mandare gli scarti all'estero come fa Roma che senso ha? Serve un approccio laico e scientifico».

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