Con la web tax è partita la guerra fiscale globale

Con la web tax è partita la guerra fiscale globale
di Giovambattista Palumbo
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Giovedì 21 Dicembre 2017, 09:38 - Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 12:05
Il 2017 è stato un anno di passione per le multinazionali del web, messe nel mirino soprattutto in ordine a una non più ammissibile omessa tassazione dei loro profitti miliardari. Ciò che, dopo anni di sterili dibattiti, è stato finalmente compreso è che, per affrontare fenomeni come quello della tassazione dell'economia digitale, occorre adottare una nuova prospettiva. All'Ecofin di Tallin del 21 settembre 2017, anche l'Europa ha infatti capito l'ineluttabilità di trovare una soluzione, operando, principalmente, in due direzioni: tassazione sul fatturato, e/o evoluzione del concetto di stabile organizzazione. Con sullo sfondo il tema dei big data.

La stabile organizzazione, in particolare, costituisce la codificazione del principio per cui uno Stato può tassare gli utili di impresa solo qualora il non residente eserciti la propria attività in tale Stato mediante una sede fissa di affari. Ma di quale sede fissa hanno bisogno gli operatori del web? E però la citata definizione di stabile organizzazione trova consacrazione sia nelle norme interne che nelle convenzioni internazionali. E questo è stato, fino ad oggi, il principale ostacolo all'introduzione di una norma ad hoc, che fermasse l'emorragia fiscale. Un ostacolo che, visto che la norma, alla fine, con l'ultima legge di bilancio, è stata introdotta, non era poi così insormontabile.

Eppure c'era chi sosteneva che una modifica unilaterale del concetto di stabile organizzazione sarebbe stata vana, poiché le multinazionali estere avrebbero invocato il principio della prevalenza delle disposizioni internazionali sulle norme interne. Ai tecnici della materia, però, non poteva sfuggire che, anche in base alla disciplina Ocse, una soluzione normativa, come quella ora adottata con la web tax nazionale, di stampo solo procedurale e in funzione antielusiva (che, in pratica, comporterà solo un'inversione dell'onere della prova, a carico delle società del web, al superamento di determinati parametri presuntivi), non sarebbe stata, in realtà, soggetta a tale pericolo. E questo senza neppure considerare che, già sulla base della precedente disciplina, erano stati notificati vari accertamenti, per centinaia di milioni di euro, a diverse big company del web, le quali, pagando almeno una parte del contestato, hanno, di fatto (e anche di diritto), ammesso l'esistenza in Italia di una stabile organizzazione. Facebook stessa, il 12 dicembre, ha annunciato infine che pagherà le imposte sui ricavi conseguiti dalla società locale nel Paese di riferimento e non più solo a Dublino; come peraltro aveva già deciso di fare in Gran Bretagna e in Australia, appena, guarda caso, tali Paesi avevano introdotto una norma di contrasto all'elusione del web (a dimostrazione che più che di un ravvedimento si tratta di una capitolazione davanti alla, tardiva, reazione degli Stati). Ma allora perché l'introduzione di una tale norma (di civiltà giuridica e fiscale) ha suscitato tante opposizioni e perplessità? Probabilmente per miopia giuridica. O più semplicemente perché anche agli economisti e giuristi che si confrontano sul tema sfuggono spesso, proprio da un punto di vista tecnico, molti dei profili legati all'evoluzione tecnologica. E questo non per incompetenza, ma per un vero e proprio gap generazionale.

Aspetti che per i miei figli (due bambini di 9 e 12 anni) sono semplici da comprendere, per me (che di anni ne ho 45) richiedono uno sforzo intellettuale notevole. E dunque, considerato che la nostra classe dirigente ha, come noto, un'età anagrafica ben più alta, è anche umano comprenderne la difficoltà a gestire fenomeni spesso a loro lontani. E questa caratteristica è tipicamente italiana, ma anche europea evidentemente. I protagonisti del nuovo mondo sono del resto quasi tutti, non a caso, americani e cinesi. E tra le società che producono Riot Games o giochi Freemium si colloca, al primo posto, Tencent, società cinese con un volume d'affari superiore a 4,2 miliardi di dollari. Ma se chiedete in Italia cosa sono le Riot Games o i giochi Freemium, quanti sapranno rispondere (dai 40 anni in su, almeno, perché i miei figli lo sanno benissimo)?

Insomma, l'approccio al fisco del mondo digitale deve essere darwiniano. Nel senso che vi deve essere un'evoluzione giuridica al passo con quella tecnologica. E in tale direzione va ora la web tax italiana, passando anche dal superamento della tassazione dell'utile, legata a definizioni ormai obsolete di stabile organizzazione, ad una sul fatturato, difficilmente aggirabile anche grazie alla collaborazione degli intermediari finanziari. Almeno fino a quando i pagamenti non avverranno in bitcoin, dato che, in tal caso, di intermediari non ce ne sarà neppure bisogno. Ma questo è un altro capitolo di una saga, che, sicuramente, nel 2018 avrà interessanti sviluppi.

E dunque ben venga il nuovo anno e ben venga il futuro. L'importante è attrezzarsi per tempo. Anche perché, mentre l'Europa cincischia, gli Usa abbasseranno l'aliquota sulle società dal 35% al 20% e includeranno nel reddito della controllante Usa il 50% dell'extra-profitto generato dalle controllate estere. Con l'obiettivo di consentire alle multinazionali (anche quelle che ora noi ci accingiamo a tassare con la web tax) di riportare a casa 2.600 miliardi di dollari stipati in filiali offshore. E prevedendo anche una excise tax del 20% sui pagamenti effettuati da una società Usa ad una consociata estera, a meno che quest'ultima non opti per la tassazione in Usa dell'utile realizzato sulla transazione.

Insomma, è scoppiata la guerra fiscale globale. E allora delle due l'una: o ci rassegniamo ad essere una colonia fiscale (della Ue, degli Usa o delle multinazionali del web), oppure dobbiamo attrezzarci senza esitare.
 
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